Mitski Laurel - Hell (2022)

di indie-rock

‘Be The Cowboy‘, il suo album del 2018, è stato per Mituski Laycock-Miyawaki in arte Mitski la definitiva consacrazione. Soprattutto grazie a Pitchfork, che non immeritatamente ma neanche prevedibilmente lo aveva eletto miglior LP di quell’anno, facendogli conseguentemente compiere una discreta scalata nelle classifiche di vendita, soprattutto in madrepatria. Sì, perché a dispetto delle generalità che rimandano al Sol Levante, Mitsuki è cresciuta a New York, dopo aver girato mezzo mondo a causa della professione del padre americano, impiegato al Dipartimento di Stato. Nonostante la sua prima lingua sia quella materna, il giapponese, la sua musica è stata sempre esclusivamente influenzata da folk, pop e rock alternativi radicati negli States.

E così è anche ‘Laurel Hell‘, il disco che deve confermare quanto di buono fatto tre anni e mezzo fa, anche dal punto di vista commerciale. La scelta di Mitski e del produttore Patrick Hyland è quella di non abbandonare la strada del cantautorato colto, dando però una fortissima connotazione melodica, a tratti persino ballabile, alle 11 tracce in scaletta, e utilizzando strumenti, come i sintetizzatori, in misura maggiore rispetto a quanto mai fatto in carriera dalla musicista nippo-americana. Nonostante alcuni passaggi musicalmente gioiosi, è l’introspezione il tema dominante dei testi: “Avevo bisogno di canzoni che mi aiutassero a perdonare sia gli altri che me stessa. Faccio sempre degli errori. Non voglio dare l’idea di essere un modello da seguire, ma non sono nemmeno una cattiva persona. Avevo bisogno di creare questo spazio soprattutto per me stessa, in cui trovo posto in una sorta di zona grigia“, afferma nella press-release della Dead Oceans, la label che pubblica questo disco.

Da tutto ciò esce un disco che, meritevolmente, non si pone l’obbiettivo di replicare il successo di ‘Be The Cowboy‘, ma prende strade differenti, attraversando variegati paesaggi sonori e mantenendo, al contempo, sempre molto alta l’ambizione sia musicale che narrativa. Ci sono molti brani che si possono a pieno titolo definire “grandi canzoni” per come sono confezionati: ‘Working For The Knife‘, ‘Stay Soft‘, ‘The Only Heartbreaker‘, ‘Love Me More‘ e ‘Should’ve Been Me‘, ad esempio. Si insinuano in maniera non uniforme nella memoria di chi le ascolta, grazie ad aperture melodiche e ritornelli di grande livello. Insomma, se c’era bisogno di una conferma, Mitski l’ha data. Se c’era bisogno di un album che potesse ambire anche a un buon turnover, Mitski lo ha realizzato, ma in maniera non certo banale.

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