Una sfida contro il razzismo: Ray Charles e la sua Georgiad
Mr. Robinson, meglio conosciuto dal grande pubblico solo come Ray Charles, soppesò la cosa, spalancò il suo sorriso e tornò a cantare: si, dopotutto Georgia on my mind non avrebbe stonato nel suo nuovo album, un concept che raccoglieva canzoni dedicate a diversi luoghi degli Stati Uniti.
Lui stesso veniva dalla Georgia, dove era nato nel 1930 e che aveva lasciato presto per la Florida. Dopo che il padre abbandonò la famiglia fu cresciuto tra mille difficoltà dalla madre, spesso costretta dai lunghi turni di lavoro a lasciarlo solo con il fratellino George, annegato di fronte a lui mentre Ray urlava disperatamente per un aiuto che non arrivava.
Poi a soli sette anni era diventato non vedente per un glaucoma o per una infezione mal curata: quello che aveva visto fino a quel momento non era stato il meglio che si potesse offrire a un bambino, tra la dura segregazione del sud e l’indigenza di una situazione familiare precaria.
La cecità lo spinse in un mondo privo di luce, ma in questa oscurità il ragazzino fu in grado comunque di trovare un appiglio nella musica: imparò a suonare il clarinetto, il sassofono e il pianoforte, mentre l’attrazione per quel jazz raffinato e scintillante che ascoltava alla radio, su cui primeggiava il suo eroe Nat King Cole, lo portò al canto.
Dopo la morte dei genitori iniziò sedicenne la carriera di musicista con brani leggeri e accattivanti, per poi evolversi in pochi anni in uno dei maggiori talenti del soul, mescolando nello stesso calderone jazz, blues, rock’n’roll, gospel, fino al country, mossa inaudita per un artista di colore.
Di pari passo crebbe anche la confidenza con la propria voce: intensa e profonda divenne col tempo sempre più abile a esaltare stati d’animo e sentimenti tra i più diversi, arricchendo di sfumature e colori uno stile emotivo ed evocativo come pochi altri prima e dopo di lui.
Il suo talento superava la limitazione della cecità, che sembrava volutamente ignorare, evitando di usare bastoni o accompagnatori quando poteva, pronto a vivere nel bene e nel male ciò che il destino gli aveva riservato.
Arrivarono i primi grandi successi, come Hallelujah I love her so, I got a woman, This little girl of mine, fino a What’d I say, che lo impose definitivamente all’inizio degli anni sessanta come uno degli assoluti protagonisti della musica pop.
L’idea di cantare Georgia on my mind nel nuovo album si era così imposta facilmente in Ray: poteva essere un modo per chiudere un cerchio. Il brano era stato scritto nel 1930 da Hoagy Carmichael e Stuart Gorrell e, nell’intenzione dei suoi autori, Georgia on my mind era una canzone dedicata a una ragazza, nello specifico la sorella di Hoagy.
Ray Charles fece propria la canzone e decise di staccarla dal suo intento romantico e delicato per farne qualcosa di diverso, puntando alla dolorosa malinconia di chi vive quotidianamente il razzismo e la segregazione del sud e, nonostante tutto, chiama quel luogo casa.
La registrazione del brano non fu senza problemi: la grande orchestra di oltre cinquanta elementi ingaggiati per la sessione rimase in attesa nello studio per qualche ora prima che un Ray Charles apparentemente poco presente a sé stesso decidesse di palesarsi. L’eroina, l’amica che da anni Ray frequentava e da cui non sapeva separarsi, lo aveva ancora una volta rapito e anche se riuscì a raggiungere la sua posizione di fronte al piano grazie alla sua compagna, era chiaro per tutti i presenti quanto quella registrazione fosse sempre più in salita.
Quando il direttore indicò all’orchestra di iniziare a suonare i musicisti si interruppero quasi subito: l’amante di Ray lo stava graffiando alle caviglie nude, mentre il cantante sembrava completamente assente dal contesto. Poi, dopo interminabili secondi d’imbarazzo e di sguardi di circostanza, Ray Charles riprese coscienza e si disse pronto a cantare e a far scintillare quella magia dalla sua voce.
Georgia on my mind prese vita dai ricordi e dalle sofferenze patite, inneggiando a quei dolorosi echi che stazionavano da decenni nell’animo del pianista, che “non trovava pace” per quanto avveniva nel suo stato natale. La pubblicazione nel settembre del 1960 fu un successo annunciato e cementò ancora una volta la fama del pianista, che raggiunse con il brano la cima delle classifiche.
L’anno successivo proprio il ritorno nella sua Georgia fu causa di una delle maggiori polemiche dell’epoca: il 15 marzo era previsto un concerto di Ray Charles all’Auditorium Bell di Augusta, un teatro divenuto famoso proprio per quello spettacolo. Il cantante non era celebre per le sue prese di posizione per i diritti civili e, come tanti suoi colleghi di colore dell’epoca, preferiva mantenere un profilo basso su certe questioni, evitando accuratamente nello stesso tempo ingaggi in teatri che erano soliti segregare il pubblico afroamericano.
A poche ore dal concerto ricevette un telegramma dal Paine College in cui gli studenti lo mettevano al corrente della decisione degli organizzatori: la sua esibizione sarebbe stata di fronte ai bianchi comodamente seduti in platea, mentre gli afroamericani erano invece destinati agli spalti.
Dapprima l’entourage del cantante provò a trovare un accordo, senza però ottenere nessuna apertura sulla segregazione, così, su indicazione dello stesso Ray Charles, si decise di sfidare apertamente i notabili di Augusta e gli organizzatori: sapendo di non avere tempo per un lungo braccio di ferro e con la consapevolezza di non avere molte possibilità di cambiare quanto deciso, Ray Charles e i suoi fecero saltare volutamente il banco per creare scalpore ed evidenziare l’assurdità della discriminazione razziale.
Ai promotori dell’evento fu recapitata una richiesta in cui si evidenziava quanto fosse ingiusto che i posti peggiori toccassero sempre ai cittadini afroamericani: per questo Ray Charles fece sapere che il concerto previsto avrebbe avuto luogo solo se, per una volta, i bianchi si sarebbero seduti in balconata, mentre la platea sarebbe stata riservata ai neri.
Come previsto, viste le premesse, non ci fu nessuna predisposizione al dialogo da parte degli organizzatori, che rifiutarono seccamente un simile accordo. Per tutta risposta Ray Charles annullò il concerto, venendo citato in giudizio per inadempienza dagli organizzatori, che videro riconosciute le loro ragioni dalla Corte Superiore della contea e ottennero un risarcimento di 757 dollari dal cantante.
Georgia on my mind, se mai la sofferta interpretazione del cantante non fosse stata sufficiente, acquisì ulteriore peso nella sua caratterizzazione di canzone contro la segregazione della comunità afroamericana e Ray Charles rimarcò più volte nel tempo quanto fosse dura e ingiusta la condizione nel sud degli Stati Uniti, dove si cresceva sapendo che molti luoghi, bar, ristoranti o cinema erano vietati solo per il colore della pelle.
Nell’autunno del 1963, forse perché i tempi stavano iniziando a cambiare, fu organizzato un altro concerto all’Auditorium Bell con Ray Charles in cartellone: stavolta non furono imposte particolari restrizioni e il pubblico poté sedersi e assistere allo spettacolo dove voleva.
L’auditorium fu restaurato sul finire degli anni ottanta e ora è parte della James Brown Arena, dedicata a uno dei maggiori artisti di colore di sempre, segno di quanta strada è stata fatta nelle coscienze degli uomini da quello show mai tenuto nel 1961.
Il sette marzo del 1979, quasi diciotto anni dopo quell’evento, la Georgia volle celebrare e forse scusarsi con uno dei suoi figli più illustri, invitandolo a esibirsi di fronte al parlamento statale: in quell’occasione un emozionato Ray Charles cantò la sua Georgia on my mind, destinata poche settimane dopo a diventare l’inno dello Stato.
Quella canzone canticchiata per caso dentro un auto molti anni prima gli aveva portato ulteriore fama, soldi e prestigio e forse anche un po’ di pace in quell’animo tormentato.
Questa storia fa parte del libro: Black Songs Matter - Trenta artisti di colore che hanno cambiato la storia della musica
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