Tutti i dischi dei Radiohead, dal peggiore al migliore
I Radiohead non si sono mai fermati. In quasi 30 anni di carriera non hanno smesso di sperimentare, non sono mai venuti meno all’essere la band perfetta per chi dal rock chiede qualcosa in più di sex and drugs. Veri topi da studio di registrazione, luogo ove lambiccano i suoni fino a spaccarsi la testa, i cinque hanno messo a punto una strategia che permette loro di stimolare chi li segue. Quale sarà la loro prossima mossa? Che musica conterranno i dischi a venire? Sono domande che nel loro caso è sempre lecito porsi. E riuscire a sortire questo effetto dopo tutto questo tempo non è cosa da poco.
Sebbene sia presente sulla scena dai primi ’90, la band ha pubblicato solo nove album, tutti di un certo peso. Ci sono artisti che pagherebbero pur di avere lavori come quelli prodotti da Thom Yorke, Jonny Greenwood, Colin Greenwood, Ed O’Brien e Philip Selway. Certo, per puntare i fari sul loro talento hanno avuto bisogno dell’inno per eccellenza della generazione X, quella Creep che è finita per essere una delle canzoni più odiate dalla band. Ma era indubbio che servisse una testa d’ariete per sfondare il muro dell’attenzione. Ottenuta quella i nostri si sono sentiti liberi di esplorare tutto l’esplorabile, entrando nella schiera di artisti che una volta ottenuto il successo non si sono adagiati ma con grande coraggio hanno sempre cercato di spingersi oltre.
Vengono in mente i Talk Talk, che però hanno messo in atto una sorta di ripiegamento in sé, diventando sempre più ostici per il grande pubblico. I Radiohead invece hanno saputo tenere alto l’hype. Dal debutto acerbo di Pablo Honey alle folate elettro-orchestrali di A Moon Shaped Pool, hanno operato allo stesso tempo dentro e fuori dal mainstream arrivando a essere un culto da oltre 30 milioni di dischi venduti. Ciò senza mai correre il rischio di svendersi ma anzi tenendo sempre alta la curiosità.
Ecco quindi un excursus dei dischi che hanno cambiato il rock moderno e che hanno fatto guadagnare ai Radiohead la loro incredibile reputazione.
9 - “The King of Limbs” (2011)Non è difficile scegliere. È il meno perfetto tra gli album della band di Oxford, quello che a un certo punto comincia a mostrare una certa stanchezza. Le idee in questo periodo non devono essere fioccate, lo si evince dalla scarsa durata del disco che stupisce come al solito per la capacità con la quale i cinque gestiscono strutture pop-rock su ragnatele elettroniche, ma che trova un po’ di fiacca nel songwriting. Lotus Flower è la migliore del lotto.
Questi erano proprio altri Radiohead, distanti anni luce da ciò che sarebbero diventati. Proponevano un mix tra Brit pop e grunge che non manca di fascino in un’opera prima ancora imperfetta, ma con la band tesa e vogliosa di spaccare. Poi qui dentro c’è Creep, croce e delizia del gruppo che getta ombra su canzoni in ogni caso tutt’altro che memorabili, a parte How Do You?. In Pablo Honey c’è il seme da cui tutto germoglierà, implosione ed esplosione allo stesso tempo.
È il disco politicizzato dei Radiohead, l’assalto contro il dio danaro, l’estremismo e il conservatorismo. Dall’iniziale 2 + 2 = 5 siamo presi da un senso di straniamento, sono loro, ma allo stesso tempo si trovano già oltre rispetto al recente passato, il mettersi in gioco è sempre più una costante. Hail to the Thief non concede un attimo di tregua nel suo essere soprattutto una potente invettiva, forse anche troppo.
A oggi l’ultimo album in studio della band, quello ornato dai colti arrangiamenti orchestrali della London Contemporary Orchestra a cura di Jonny Greenwood, sempre più avvezzo a lanciarsi in certi territori (come si evince dalle colonne sonore che ha curato). Il suono è meno tecnologico e più disteso e lunare. Daydreaming e Burn the Witch sono singoli straordinari. Un altro passo avanti in una maturazione che sembra non avere mai fine.
5 - “In Rainbows” (2007)Divenuto celebre all’epoca per essere stato messo in vendita in digitale a un prezzo scelto dagli acquirenti, In Rainbows dimostra il superamento delle atmosfere tese del rabbioso Hail to the Thief e si adagia su ritmi più sereni. L’elettronica la fa sempre da padrona, ma è di nuovo l’umanità dei musicisti che prende il sopravvento. All’orizzonte il cielo è ancora fosco, ma l’arcobaleno che si intravede fa ben sperare.
Per chi ama i Radiohead degli albori, quelli ancora non così toccati dal sacro verbo della sperimentazione, The Bends è oro colato. La differenza con Pablo Honey è che qui non ci si regge solo su un singolo fortunato, ma su canzoni di spessore. I Radiohead cercano di andare un passo oltre i coevi Oasis e Blur, non si accontentano di essere incanalati in un genere ma ne saggiano i confini pronti a espanderlo. Fake Plastic Trees, Bones e Street Spirit fanno presagire grandi cose.
3 - “Amnesiac” (2001)Amensiac proviene dalle stesse sessioni di Kid A, ma esce l’anno successivo. Cosa lo differenzia dal suo gemello e lo rende leggermente inferiore? Soprattutto l’effetto sorpresa, ma dopo le futuribili invenzioni di Kid A è chiaro che aspettarsi di più sarebbe stato impossibile. In Amnesiac ci sono meno tensione innovativa e più rilassatezza, che sfocia in una più spiccata attenzione alla “canzone”. Le virgolette sono d’obbligo perché in realtà è il superamento della stessa che la band cerca, non certo l’adagiarsi su schemi precostituiti. Un esempio su tutti: il 16/8 che rende Pyramid Song un impossibile pezzo da classifica.
2 - “OK Computer” (1997)Ovvero come spiccare un balzo oltre le buone intuizioni di The Bends e diventare i Pink Floyd degli anni ’90. Composizioni belle da far spavento sono in perfetto equilibrio con suoni mai sentiti fino a quel momento. Anche le strutture si ampliano, i sei minuti abbondanti di Paranoid Android ridiscutono il concetto di suite rock, incanta la dolcezza di Exit Music, The Tourist, Lucky, con Mellotron a tutto spiano. Ma anche le allucinazioni di Fitter Happier e il pop di Karma Police. OK Computer è il meglio di tutto ciò che il rock è stato e sarà.
1 - “Kid A” (2000)Quando uscì Kid A non ci si credeva. Ci si aspettava un seguito più o meno simile a OK Computer, ma ancora non si sapeva dove avevano la testa i Radiohead, lo avremo capito da qui in avanti. Ci si spalanca innanzi un monolite acustico ed elettronico, con schegge glitch, synth pop, psichedelia, free jazz e orchestrali che avrebbero cambiato per sempre il modo di pensare il rock. Pochi si erano spinti così oltre riuscendo a perpetuare il successo di vendite, impresa miracolosa quando si sperimenta. Così i Radiohead diventano i messia del nuovo, e lo sono ancora.
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