Anaïs Mitchell – Anaïs Mitchell (2022)

 di Alberto Campo

Nel settembre 2020 “Time” aveva incluso Anaïs Mitchell nell’elenco delle cento persone più influenti dell’anno: merito del trionfo inatteso del musical Hadestown, evoluzione dell’omonimo album uscito nel 2010 (una sorta di aggiornamento del mito di Orfeo ed Euridice all’epoca della Grande Depressione), che al culmine dell’ascesa era sbarcato nel 2019 a Broadway conquistando poi ben otto Tony Awards, gli Oscar del settore.

Alla fine – ha confessato Mitchell qualche settimana fa a “The Guardian” – si è sentita addirittura “intrappolata” da quel successo. La pandemia ha fatto il resto: incinta di nove mesi della secondogenita, ha deciso di lasciare New York, dirigendosi insieme alla famiglia verso il natio Vermont. Il disco nuovo comincia da lì, con una lettera d’addio: “Brooklyn Bridge”. L’eco di una slide guitar, un pianoforte dolente, la morbidezza dei fiati e una voce confidenziale: ingredienti essenziali di una ballata squisita.

Dopo di che prendono il sopravvento i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, scrigni zeppi di ricordi. “In una scatola nel sottoscala, ho trovato una ciocca di capelli di bambino, e improvvisamente ti ho vista lì, su una sedia in legno con gli occhi lucidi, scappar via nascondendo il viso nel merletto della Regina Anna”, recitano i versi di “Revenant”. È una “piccola grande ragazza” a parlare, “cresciuta per errore, cresciuta di sorpresa”, svela “Big Little Girl” su un canovaccio appena velato di melò, mentre “Real World” – un’ode al mondo predigitale: “Voglio gustare vero whisky sulle tue labbra” – si sviluppa sull’intreccio fra un arpeggio garbato di chitarra acustica e l’intonazione nitida del canto. Caratteristiche che informano, con un pizzico di elettricità in più, pure l’incantevole “Bright Star”: “Stella lucente, quando ho posato per la prima volta lo sguardo su di te, sono stata pervasa dal desiderio di starti accanto nell’oscurità”.

È quello, d’altronde, l’habitat sonoro di provenienza: «Ha una consapevolezza vissuta della musica tradizionale e delle canzoni popolari, ma come essere umano è davvero al passo con i tempi, cosa che le permette di ancorare tutto al presente», spiegava di recente al “New York Times” Josh Kaufman, pluristrumentista al suo fianco nel trio old school Bonny Light Horseman e nella circostanza produttore. Fra i partecipanti si nota inoltre Aaron Dessner, che – The National a parte – guida il collettivo 37d03d (stilizzazione di people scritto al contrario) e il progetto Big Red Machine – Anaïs è implicata in entrambi – insieme  a Justin “Bon Iver” Vernon, corregionale di Mitchell e suo stabile interlocutore artistico (Orfeo in Hadestown, dove lei era ovviamente Euridice e ad Ani DiFranco – anch’ella impegnata a valorizzarla in passato con la propria etichetta Righteous Babe, editrice di quel lavoro e del precedente The Brightness – spettava il ruolo di Persefone).

Alla cerchia di amici è venuto a mancare da poco Felix McTeigue, al quale è dedicata espressamente “On Your Way”: elegia dal vago aroma dylaniano.

Per quanto si tratti in definitiva di folk dal profilo classico, da alcuni dettagli trapela l’attualità: sia negli arrangiamenti – sbuffano qui e là sintetizzatori – sia nell’impianto narrativo, come dimostra “Backroads” rievocando – sì – feste giovanili e amori acerbi ma con un guizzo repentino da Black Lives Matter (“Sbirro differente la stessa notte, fermò un ragazzo per un fanale posteriore, qualcuno pensò che non avesse l’aspetto adatto, ma potrebbe anche aver detto che non era bianco”). Il senso dell’opera è chiaro, comunque: ritrovare una dimensione appartata per smaltire la sbornia di attenzioni ricevute nell’ultimo biennio. Perciò l’album suona intimo e personale, tant’è che Anaïs Mitchell ha scelto d’intitolarlo semplicemente con nome e cognome.

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