The Flatlanders - Treasure Of Hope (2021)

 di Gianfranco Callieri 

Partiti nel 1972 come somma delle forze di tre (allora) giovani amici, sciolti nel giro di una stagione o due e poi riformatisi quasi trent’anni più tardi, quando i loro membri già avevano intrapreso da tempo carriere soliste sempre baciate almeno dal rispetto di critica se non dalla fortuna commerciale (invero altalenante), i Flatlanders del 2021 non sembrano un semplice progetto comunitario e collaterale di Joe Ely, Butch Hancock e Jimmie Dale Gilmore, bensì un piccolo e adorabile monumento alla musica del Texas. Un jukebox, insomma, dei brani più rappresentativi di quell’intreccio tra country, rock, folk e blues che mezzo secolo fa appariva originale e inclassificabile mentre nel tempo avrebbe acquisito la definizione (non sempre calzante) di Americana, genere (se lo vogliamo chiamare così) sulla nascita del quale i nostri potrebbero anche rivendicare un’indiscutibile primogenitura.

Se non lo fanno è perché i tre hanno già dimostrato, in ogni occasione, di nutrire amore, cura, dedizione e interesse non per l’araldica ma per la musica e il suo immaginario, anche stavolta riassunti e riverniciati da un tocco di contemporaneità con finezza ineffabile, in un processo di sintesi dove le diverse personalità degli autori — Gilmore più incline al country classico, Hancock ai rintocchi da ballata dylaniana, Ely al rock and roll puro — tornano a legarsi in perfetto equilibrio tra antico e moderno. Treasure Of Love diventa così un altro, delizioso viaggio attraverso luoghi, suoni e folclore dello stato del Texas, con stazione di partenza nella Moanin’ Of The Midnight Train di Hancock (qui cantata da Ely e interpretata con grintoso contegno elettrico) e ultima tappa nei Mississippi Sheiks di Sittin’ On Top Of The World, dolente blues anch’esso riletto tramite armoniche incalzanti e ritmo quasi rockabilly. Durante il percorso, il treno dei Flatlanders, al solito guidato da un macchinista di gran classe quale Lloyd Maines, fa tappa presso l’epico country-rock di una She Belongs To Me (Bob Dylan) di rara bellezza, intorno al country danzereccio di Long Time Gone (Everly Brothers) e lungo gli sconfinamenti honky-tonk di una Mobile Blues (Mickey Newbury) parafrasata col santino di Merle Haggard nelle tasche.

A convincere, inoltre, sono soprattutto gli episodi dedicati al country e alla canzone d’autore, oasi tascabili di eleganza e malinconia che è impossibile non leggere (anche) come dichiarazioni di estraneità alla frenesia, alle apparenze luccicanti, alle superfici vuote del mondo attuale: da The Ballad Of Honest Sam di Paul Siebel, resa toccante dalla voce di cristallo di Gilmore, alla Ramblin’ Man rivisitata da Ely (gli altri due la eseguivano in un dimenticato live australiano del 1990, l’ottimo Two Roads), dalla Snowin’ On Raton di Townes Van Zandt alla Give My Love To Rose di Johnny Cash, ognuna delle serenate elettroacustiche dei Flatlanders sa appassionare con garbo d’altri tempi.

Al contrario di quanto accade in due recenti western di celluloide, Il Mondo Che Verrà (The World To Come) di Mona Fastvold e First Cow di Kelly Reichardt (entrambi targati 2020), i Flatlanders non paiono affatto intenzionati a demistificare le proprie radici e l’eredità culturale da cui esse provengono: al contrario un disco come Treasure Of Love preferisce se mai rassicurarci, con nostalgia irresistibile, con una tenerezza senza sospetti di oscurantismo, sulla bellezza imperitura di ciò che è stato, sullo splendore e la dolcezza di quanto abbiamo amato e non smetteremo di amare.

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