Steve Gunn - Other You (2021)

 di Gianfranco Marmoro

Le preziose e inconsuete grazie di “Time Off” (2013) hanno turbato molti cuori. Inutile negarlo, quel primo capitolo di autodeterminazione artistica di Steve Gunn, già noto per essere stato alla corte di Kurt Vile, catturava furtivamente l’animo dell’ascoltatore al pari di un salutare e inconsueto trip, sfuggendo abilmente alle potenziali definizioni di stile. Abile nel lambire il fascino della memoria collettiva con “Way Out Weather”, Gunn ha salutato il passaggio dalla Paradise of Bachelor alla Matador con passionali e raffinati capitoli discografici (“Eyes On The Lines”), che tuttavia sembravano attanagliati da una metodologia sempre più introspettiva e introversa (“The Unseen In Between”), non sempre all’altezza del potenziale dell’autore e chitarrista americano.

Gettare all’aria delle registrazioni non del tutto convincenti, prendersi una pausa a causa anche delle difficoltà causate dal coronavirus, e modificare la prospettiva e l’approccio alla composizione, hanno dato una svolta imprevista alla genesi del nuovo album dell’artista americano. Ad onor del vero, “Other You” non è il nuovo disco di Steve Gunn, ma è il “disco” di Steve Gunn, il progetto risolutivo che finalmente svela tutte le sue peculiarità non solo come autore, ma anche come artigiano di sonorità largamente svincolate dai cliché che ne stavano incasellando la carriera.

Galeotto fu il riavvicinamento con il vecchio compagni di ventura Justin Tripp, ma anche la voglia di non nascondere quelle suggestioni artistiche che nascevano dall’ammirazione per Robert Wyatt, dalla curiosità per le orchestrazioni classical-folk della Penguin Café Orchestra e per la potenza espressiva di alcune voci femminili come Mary Margaret O’ Hara e Bridget St John.

La prima conseguenza è un ruolo più rilevante del pianoforte, non tanto in sede di arrangiamento quanto in quello di composizione. Le sonorità sono lievemente più fragili nonché ricche di sfumature di grigio, ma anche di affilati sussurri di elettronica. Infine, la voce è incastonata in un puzzle di suoni mai così ricco, pronta ad assecondare le infinite variabili armoniche, senza impossessarsi della scena, eppur restando in primo piano.

La bellezza mutaforma, accennata tempo addietro in “Way Out Weather”, è la vera protagonista di un album che svela subito le proprie grazie, riscrivendo le regole della perfetta ballata folk moderna, inebriando di accordi di piano jazz e chitarra neo-psych (con un fulgido assolo) la splendida “Fulton”, non prima di aver liberato fantasmi, sogni e illusioni, condensandone il distopico fascino nella seducente e intricata title track, un'ariosa e sofisticata folk-song sulla scia del Nick Drake più onirico, appena mitigata da un lieve tempo percussivo che contribuisce alla definitiva ascesi mistica.

E’ un disco a tratti surreale, “Other You”. Steve cesella ballate fluttuanti alla John Martyn con l’ausilio di due sole note e un'infinita varietà di toni in “Good Wind” (ai cori Juliana Barwick). Con la complicità di Mary Lattimore, non solo mette in campo il miglior brano strumentale della propria carriera “Sugar Kiss”, ma espande all’infinito quella spiritualità che da sempre agita le acque anche di quei brani considerati, spesso a torto, minori. La rigenerazione creativa di Gunn non avviene a scapito del passato: la schiettezza e naturalezza lirica di “On The Way” e il trasognante duetto con Bridget St John in “Morning River” catturano i sensi con melodie che difficilmente si dimenticano o si accantonano con superficialità.

Il senso di libertà ed eclettismo che caratterizza questo nuovo album contagia anche il formato canzone nel senso più stretto del termine, ma mentre “Circuit Rider” è un estroverso folk-pop ricco di fraseggi chitarristici e vocali degni dei Go-Betweens, la più ambigua “Protection” non solo cattura groove psichedelici degni dei Grateful Dead, ma ne accompagna l’evoluzione con il pulsante suono del basso, un’estetica finto-kraut e uno svogliato timbro vocale che non diventa mai inopportunamente drammatico.

Il raffinato tempo di bossa nova di “The Painter” conferma che nulla può essere dato per scontato in “Other You”: Steve Gunn, in piena estasi e ispirazione, si avventura in territori impervi con una destrezza e un’empatia frutto di un lavoro certosino, ricco di dettagli. Non è mai stata infatti cosi affascinante la seduzione del canto come in “Ever Feel That Way”: cori, delicate stratificazioni chitarristiche e un ritornello che entra nella mente come un mantra catturano i sensi fino allo sfinimento, fino all’estasi. La stessa estasi che pochi minuti prima permea la canzone più atipica e sublime di “Other You”, introdotta da poche note di Fender Rhodes, le quali aprono le porte a un power-pop intriso di soul e blues, coronato da una melodia che graffia il cuore e trascina via gli ultimi residui di perplessità.

Alla maniera di Mark Hollis, Steve Gunn ha trovato la dimensione artistica ultima, e per la prima volta l’incertezza del futuro si impadronisce del destino del musicista americano, aprendo scenari fantastici.

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