John Hiatt - Leftover Feelings (2021)

di Giovanni Botti

Ormai vicino alla soglia dei 70 (è nato il 20 agosto del 1952) e a tre anni dal suo ultimo album, il non imprescindibile “The Eclipse Sessions”, John Hiatt ha deciso di cambiare registro, è tornato a Nashville e ha registrato una serie di nuove canzoni dalla struttura folk assieme ad uno dei migliori ensamble del country-bluegrass, la Jerry Douglas Band. E dopo una serie di attenti ascolti possiamo tranquillamente affermare che “Leftover Feelings” è il disco più fresco e intrigante pubblicato dal cantautore di Indianapolis da diversi anni a questa parte. Intendiamoci, il livello di capolavori come “Bring In the Family” (1987) e “Slow Turning” (1988) è lontano e probabilmente non più raggiungibile da un artista che è sulla scena da quasi mezzo secolo. Questo anche perché la voce di Hiatt non ha più il vigore e l’estensione di un tempo. Oggi è una voce più roca e sofferta che però mantiene il suo fascino e si sposa benissimo con un gruppo di canzoni roots molto sincere, caratterizzate da un sound tendenzialmente acustico e senza la batteria, guidato dal dobro e dalla steel guitar di Jerry Douglas, che le trasporta in un territorio tra il folk e il blues con un pizzico di bluegrass.

Undici canzoni, dieci delle quali nuove di zecca, che dimostrano come John Hiatt, se ne ha voglia, sa ancora scrivere piuttosto bene e che vanno a comporre un album che si ascolta con piacere dall’inizio alla fine. C’è una ripresa dal suo catalogo del passato, ma si tratta di un brano meno noto, “All The Lilacs in Ohio” (era in “The Tiki Bar is Open” del 2001), riproposto in un’inedita versione bluegrass. E ci sono anche alcune autocitazioni, come l’iniziale “Long Black Electric Cadillac”, che ricorda soprattutto all’inizio la “Tennessee Plates” di “Slow Turning”. Ma soprattutto ci sono le ballate roots, un genere in cui Hiatt è un vero maestro, alcune delle quali davvero bellissime. Stiamo parlando della deliziosa “The music is hot”, guidata dal dobro di Douglas, ma anche della più lenta “I’m in Ashville”, che sembra uscita dalla penna di John Prine, o della crepuscolare “Changes in My Mind”, in cui il cantautore dell’Indiana strizza l’occhio a Steve Earle e Guy Clark. Splendida anche la conclusiva “Sweet Dream”, tra country e folk. Un grande artista ritrovato.

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