Ben Howard – Collections From The Whiteout (2021)

Coerentemente con uno stile musicale molto personale, Ben Howard ha sempre mantenuto per sé stesso l’intero processo creativo dei primi tre album della sua carriera. Ciononostante, la sua crescita è stata chiara ed evidente, con il non secondario merito di aver perseguito una sua peculiare evoluzione artistica nonostante l’enorme successo del suo LP d’esordio, ‘Every Kingdom‘ (2011), giunto al doppio disco di platino in UK e a quello d’oro negli USA e in Germania. Avrebbe potuto crogiolarsi sugli allori e solleticare quello specifico pubblico di mezza età che compra i CD nei grandi shopping mall, ma ha scelto diversamente, rendendo sempre meno scontato il proprio suono che nasce, sempre e comunque, dal folk suonato con la chitarra acustica

Per il suo quarto album in carriera, però, Howard ha aperto le porte a svariate collaborazioni esterne, ben al di là della band che lo segue in studio e in concerto. Primo tra tutti Aaron Dessner dei National, che dunque può riscattarsi dalla produzione mielosa riservata a Taylor Swift con un’artista maggiormente adeguato al suo talento. Ben ha superato la sua atavica timidezza contattandolo direttamente, da grande fan della band in cui Dessner suona la chitarra. Le sue conoscenze e i suoi ganci hanno permesso a diversi altri ospiti illustri di prestare il proprio contributo a ‘Collections From The Whiteout‘, in un numero che sarebbe sufficiente a mettere in piedi un paio di super-gruppi: il batterista jazz Yussef Dayes, Kate Stables aka This Is The Kit, James Krivchenia dei Big Thief, Kyle Keegan della band di Hiss Golden Messenger, Thomas Bartlett alias Doveman (quello che suona il piano nell’ultimo disco di St. Vincent), il violinista live di Bon Iver Rob Moose, Blake Mills e pure Phoebe Bridgers. Anche i soggetti delle nuove canzoni di Howard si concentrano su terze parti, investigando fatti di cronaca come le vicende del velista improvvisato Donald Crowhurst (‘Crowhurst’s Meme‘), della truffatrice russa Anna Sorokin (‘Sorry Kid‘), dell’aeroplano rubato e utilizzato per suicidarsi da Richard Russell (‘The Strange Last Flight Of Richard Russell‘).

Musicalmente, l’avvento di Dessner porta una serie di suoni inediti per i dischi di Howard, soprattutto quelli non analogici: c’è quasi sempre una drum-machine, quasi mai troppo invasiva, nelle canzoni in scaletta. ‘Sage That She Was Burning‘ è l’apice di questo approccio, con un loop incisivo al limite dell’industriale a scandire il ritmo di un brano che si può tranquillamente definire folktronico. La ripetuta deviazione dal banale canovaccio dell’indie-folk contemporaneo era già caratteristica del precedente ‘Noonday Dream‘ (2018), ma in ‘Collections From The Whiteout‘ ci sono ulteriori variazioni sul tema, alcune rimarchevoli: i beat di ‘Crowhurst’s Meme‘, il noise-folk di ‘Finders Keepers‘, la stratificata ‘Unfurling‘, la ritmata ‘Make Arrangements’, la digitale ‘The Strange Last Flight Of Richard Russell‘. Se brani come ‘What A Day‘, ‘Far Out‘ e ‘Sorry Kid‘ si adagiano sul già sentito ma con raffinata maestria melodica, è soprattutto un pezzo come ‘Rookery‘ che riesce a mostrare come Ben Howard possa anche, e tranquillamente, bastare a sé stesso, semplicemente utilizzando la sua voce e la sua acustica. Il merito per un altro ottimo disco come questo è soprattutto suo, della sua scrittura e della sua apertura compositiva al non predefinito. Sono aspetti che lo pongono, ancora una volta, un gradino sopra ai colleghi di genere.

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