Popa Chubby – Tinfoil Hat (2021)

 di Marco Zoppas

Il mio primo concerto di Popa Chubby è stato in provincia di Treviso. Mi colpì la sua versione di Isis di Bob Dylan, un suo cavallo di battaglia dal vivo, come avrei scoperto in seguito. La seconda volta è stata nel freddissimo Natale del 2001 a New York. Ricordo che Popa Chubby entrò nel locale insieme a noi che facevamo la fila e che ai piedi (nudi) aveva solo delle infradito. Fuori si gelava. L’ultimo suo concerto con me presente è stato sulle sponde del Tevere a inizio degli anni duemila. Nonostante la perversità delle sue rinomate battute sui batteristi (esempio: “How do you call a drummer without a girlfriend?” “Homeless”), Popa Chubby è in realtà un batterista mancato. E lo dimostrò con un lungo assolo di batteria nel bis di fine serata.

Popa Chubby e New York

Newyorkese doc, vero emblema di quella città come lo è stato Lou Reed, Popa Chubby uno dei suoi capolavori l’ha sfornato con il disco Booty And The Beast del 1995, prodotto dal recording enigineer Tom Dowd che già aveva lavorato con artisti del calibro di Aretha Franklin e Ray Charles. Popa Chubby mescola blues, soul, R&B e rock sudista. Ma è il suono della sua chitarra a renderlo indimenticabile nelle registrazioni e inimitabile come animale da palcoscenico. Non a caso un altro dei suoi album più riusciti s’intitolava How’d A White Boy Get The Blues, quasi che Popa Chubby fosse lì a domandarsi come sia possibile che un bianco come lui riesca a sentirsi così vicino alla musica blues. Ma in fondo non ci era già riuscito il suo mentore Stevie Ray Vaughan?

Popa Chubby, la pandemia e Tinfoil Hat

È una mia spiacevole convinzione che la pandemia non abbia fatto bene alla musica né dal punto di vista economico né da quello artistico. Il nuovo album di Popa Chubby ha il vantaggio di prendere il toro per le corna. Non ci gira troppo intorno e viaggia su un doppio binario: l’America di Trump e il diffondersi del Covid. Già la canzone d’apertura, Tinfoil Hat, sferra un attacco diretto sia ai negazionisti che all’ex presidente.  A seguire Baby Put On Your Mask riesce a rendere sexy persino il gesto di indossare una mascherina. No Justice No Peace, 1968 Again e Someday Soon (Change Is Gonna Come) si rivolgono al movimento Black Lives Matter con un richiamo indiretto – nell’ultimo dei tre brani citati – a quello straordinario inno per l’uguaglianza che era stato A Change Is Gonna Come di Sam Cooke. Cognitive Dissonance si avventura nel reggae, ma Popa Chubby già ci aveva abituati a incursioni in generi diversi, come per esempio nella contaminazione tra blues e hip hop di Daddy Played The Guitar, And Mama Was A Disco Queen del 2011. Quanto You Ain’t Said Shit è una gradevole presa per i fondelli di tutti coloro che si sono trasformati in esperti virologi nei tempi che corrono.

Ma a spiccare su tutte è  senz’altro Can I Call You My Friends?, una canzone in cui Popa Chubby non nasconde le proprie paure per quello che sta accadendo pur sapendo che sono le stesse paure che proviamo tutti quanti. E se questa situazione qualcosa ci ha insegnato è che siamo tutti sulla stessa barca e allora, si chiede, non possiamo chiamarci “amici”? Popa Chubby ha sempre avuto il dono di infondere una nota di positività. L’empatia delle note di Can I Call You My Friends? per me vale tutto.

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