Julien Baker – Little Oblivions (2021)

di Piergiuseppe Lippolis 

A poco più di tre anni dall’acclamato “Turn Out The Lights“, è tornata Julien Baker, una delle cantautrici più ispirate della sua generazione e, più in generale, della seconda metà della scorsa decade musicale. “Little Oblivions” è il terzo lavoro solista dell’artista originaria del Tennessee, che aveva debuttato anche in trio, al tramonto del 2018, con Phoebe Bridgers e Lucy Dacus per il promettente progetto boygenius. 

Julien Baker ha scelto un approccio diverso alla sua ultimissima fatica discografica, immediatamente riconoscibile sin dai primi minuti: l’impiego di una strumentazione più corposa che in passato si traduce in arrangiamenti che appaiono, oggi, arricchiti di nuove trame, intessute dal basso e dalla batteria tanto quanto dal banjo, dal mandolino e addirittura dal sintetizzatore. Le radici e le idee forti di una proposta artistica tanto apprezzata negli ultimi anni non vengono scalfite, ma “Little Oblivions” mostra una leggera e sorprendente tensione verso il rock a cui non eravamo particolarmente abituati, probabilmente anche figlia del lavoro, in fase di registrazione e mixing, di Calvin Lauber e Craig Silvey (The National, Florence & The Machine, Arcade Fire). 

Julien Baker intercetta nuove sensibilità e si avvicina al sound di altre illustri colleghe, da Sharon Van Etten a PJ Harvey e Angel Olsen, passando addirittura per A.A. Williams nelle non così infrequenti rarefazioni vagamente assimilabili al post-rock. Come aveva già fatto l’amica Phoebe Bridgers in “Punisher“, dunque, Julien Baker supera lo schema essenziale dei lavori precedenti, nel suo caso caratterizzato dall’assoluta centralità di chitarra e pianoforte, per articolare un sound da band, più che da solista. In studio, tuttavia, è stata la stessa Julien Baker a suonare pressoché tutti gli strumenti.

“Little Oblivions” è inaugurato dal suono abrasivo di un organo nei primissimi secondi di Hardline, inghiottito da un pulsare inquieto prima e da un’esplosione di finissimo post rock poi: la stessa deflagrazione torna in coda, in un climax emotivo dettato anche dalla frase conclusiva – “you say it’s not so cut and dry / it isn’t black and white / what if it’s all black, baby, all the time?” – che rimane, anche ad ascolto ultimato, uno dei picchi di tutto l’album. Tracce di una Julien Baker parzialmente rinnovata rispetto agli episodi precedenti sono rinvenibili anche nel synth tutt’altro che invasivo della successiva Heatwave, il cui umore scuro è mitigato da una melodia piuttosto solare, seguendo una linea di contrasto che la accomuna a Favor, al contrario uno dei passaggi più simili alla Julien Baker del passato e impreziosito dalla partecipazione degli altri due terzi delle boygenius. 

Punti di contatto con i precedenti capitoli della discografia di Julien Baker esistono anche in Crying Wolf, una ballad intensa e lancinante che trova la propria forza nell’essenzialità, e nella straziante Song in E, che coincide con uno degli epicentri emozionali dell’album (“I wish that I drunk because of you / and not only because of me, (…) I wish you’d come over not to stay, just to tell me / that I was your biggest mistake“), ma a suggerire che “Little Oblivions” possa aprire un nuovo corso nella carriera dell’artista nativa di Germantown c’è, fra gli altri, Bloodshot, che insegue quel senso di sobrietà attraverso un sorprendente pattern percussivo quasi marziale, scricchiolante in coda, su cui si poggia un contorno a colori caldi. L’incontro con un soft rock educato e rarefatto si materializza, invece, nei lenti climax e nelle aperture sonore di Ringside, che arrivano come autentici pugni nello stomaco e vengono evocati dalle stesse liriche in apertura (“Beat myself ‘till I’m bloody / and I’ll give you a ringside seat“), mentre Relative Fiction si culla su una melodia avvolgente e appena sospesa.

Qualche squarcio di luce appare anche nel leggero uptempo di Faith Healer, il singolo di lancio di “Little Oblivions“, nonostante le liriche vertano sui vizi e sulle opportunità di evasione offerte dalle sostanze stupefacenti. In coda sono stipati alcuni dei passaggi più brillanti di tutto l’album: da Repeat, ancora marcata da un crescendo che potrebbe ricordare quello di I Know The End di Phoebe Bridgers, a Ziptie, suggellata da uno dei versi più intensi di tutto il lotto (“Good God, when’re you gonna call it off, climb down off the cross / and change your mind?“), passando per Highlight Reel che, in termini di mera qualità compositiva, è probabilmente fra le migliori espressioni in assoluto di Julien Baker.

Le aperture musicali di cui sopra sembrano trovare un corrispettivo anche nella scrittura, egualmente personale, ma forse meno intima che in passato. Julien Baker conserva intonsa tutta la potenza e l’eleganza del suo lirismo, in cui la sua straordinaria sensibilità e le sue fragilità vengono messe a nudo, ma si incammina timidamente verso le fasi centrali di un percorso catartico, non certo poco doloroso, in cui la depressione, l’angoscia esistenziale, la violenza e i vizi sembrano poter essere esorcizzati da quel manto di spiritualità, a volte latente, che intride tutta la produzione discografica dell’artista, “Little Oblivions” compreso, e che assume le forme di un’esortazione indirizzata a chi ascolta, non più (solo) un mero slancio individuale. 

Ripensando anche a “Punisher” di Phoebe Bridgers, la sensazione è che l’esperienza-boygenius possa aver rappresentato uno snodo cruciale nel percorso artistico delle tre artiste e, in tal senso, due indizi – attendendo Lucy Dacus – potrebbero bastare per fare una prova. Come l’ultimo lavoro dell’artista losangelina sembrava rappresentare l’evoluzione più naturale del precedente “Stranger In The Alps“, così “Little Oblivions” appare una tappa necessaria, per Julien Baker, sulla strada verso la propria consacrazione: la ricerca di nuovi elementi non si traduce in una rifuggita dal consueto impianto folk, ma va letta nell’ottica dell’urgenza di rinnovarsi senza snaturarsi, mantenendo saldo l’equilibrio e, in potenza, guadagnando in termini di dinamismo. Julien Baker, in questo, è perfettamente riuscita: era un’operazione probabilmente necessaria, che rende vano l’inevitabile interrogativo su quale sia il migliore fra “Sprained Ankle“, “Turn Out The Lights” e “Little Oblivions“: quest’ultimo, infatti, è un ottimo terzo disco. 

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