Steve Earle & The Dukes – J.T. (2021)

 di Nicola Corsaro

Guardando la prima stagione della serie televisiva “Tales From The Tour Bus” (prodotta da Mike Judge, quello di “Beavis & Butt-Head”) si ha una visuale abbastanza chiara su quello che fu il movimento dell’Outlaw Country: a parte la musica, rivoluzionaria espressione di rivolta contro la banalità dell’establishment del country rappresentato da Nashville e dalla sua rigidissima serie di regole inviolabili (pena l’ostracismo da detto establishment, con tutte le conseguenze che ne comportava per la propria carriera), i personaggi protagonisti del movimento erano ribelli veri, insofferenti alle regole dell’America bigotta che vivevano la vita un giorno alla volta, senza voltarsi mai indietro, senza mai pensare alle conseguenze.

Steve Earle era certamente uno di questi ribelli, come del resto il suo idolo e mentore Townes Van Zandt; il nome di Townes divenne anche il secondo nome di Justin, primo figlio del cantautore, contro i desideri della madre. Non è difficile immaginare i motivi per cui Carol Ann Hunter non fosse particolarmente in favore di questo tributo: Van Zandt era un genio, uno dei giganti della musica di sempre, ma, come tanti dei giganti, era tormentato da demoni che alla fine ne presero la vita. Quel nomen omen Carol probabilmente non lo voleva, anche perché Steve, come Townes, di demoni nella vita ne ha avuti non pochi. E forse, chissà, aveva ragione, visto che Justin Townes Earle (conosciuto come J.T.) iniziò a fare uso di eroina a dodici anni mentre Steve era in prigione proprio per droga, perpetrando il discutibile mito del musicista country tormentato de rigueur sin dai tempi di Hank Williams.

Justin era un musicista estremamente talentuoso, e diciamo “era” perché, se non aveste capito dove va a parare questa storia, Steve ne ha pianto la morte l’anno scorso, quando uno speedball di cocaina e fentanyl lo ha strappato all’affetto dei suoi cari e dei suoi fans. Steve, che ha recitato in “The Wire” nella parte di un ex drogato che aiuta eroinomani a rimanere sobri, ha tentato di recitare la medesima parte col figlio: “Don’t make me bury you, son”, gli disse. Ma gli stessi demoni che lui aveva vinto hanno avuto la meglio su J.T. a soli 38 anni.

Senza ancora una causa di morte ufficiale, Steve Earle ha quindi deciso di registrare dieci delle canzoni di Justin (e una scritta apposta per l’album) per questo J.T. – “It’s the only way I knew how to say goodbye”, dice nelle note di copertina recitate in un video per Sirius XM. Avevano litigato tante volte, specialmente quando, come membro della band del padre, era stato cacciato per essere talmente ridotto male da non essere in condizione di suonare. Ma alla fine si erano riconciliati, capendo le rispettive vite, le rispettive difficoltà.

Il tributo è ottimo, come del resto era lecito aspettarsi da Earle e dal materiale usato, scelto tra i migliori pezzi degli otto album di Justin: la voce di Steve Earle è roca e carica di emozione, migliorata dalle cicatrici e dall’esperienza, e arricchisce alcuni dei migliori e più conosciuti pezzi del giovane Justin (Champagne Corolla, Harlem River Blues, amaro presagio di una fine tragica). È il più recente dei pezzi del talento dell’alternative country a fare la parte del leone qui: The Saint Of Lost Causes, il santo delle cause perse, quello al quale si votava, conscio di un destino che considerava forse inevitabile sin dall’adolescenza.

Steve Earle interpreta questi pezzi senza il veleno del figlio, ma con una maggiore malinconia – come è probabilmente logico viste le circostanze – che però non pervade l’intero album, rimanendo solo un velo sopra pezzi come I Don’t Care, dall’EP di esordio “Yuma” (2007), gioiosa e ritmata. Spetta a un pezzo di Earle padre chiudere il tributo, Last Words, delicata e profonda come Earle sa spesso essere.

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