Shame – Drunk Tank Pink (2021)
di Claudia Viggiano
Ci sono band nate fra quattro mura e che successivamente hanno imparato a calcare un palco e chi, invece, sul palco sembra esserci nato, temprato dall’immediatezza della perfomance live. Gli Shame rientrano molto bene nella seconda categoria: cresciuti nell’underground londinese, circondati da molti altri artisti, per loro quello di scrivere un album è stato quasi un processo organico, naturale conseguenza degli anni passati a suonare senza tregua e a imparare tutto ciò che c’è da imparare da quella esperienza; questo fa degli Shame una di quelle band le cui esibizioni dal vivo ‘completano’ l’album. È questo il caso di Songs of Praise, il primo album della band uscito quasi esattamente tre anni fa, che su disco si concedeva spesso momenti britpop ma dal vivo tirava fuori tutta la carica cattiva del post-punk di cui i cinque sono figli.
Drunk Tank Pink riprende decisamente il tema post-punk, ma nasce al contrario. Esausti dopo un tour interminabile, Charlie Steen e Sean Coyle-Smith (rispettivamente cantante e chitarrista) si sarebbero rinchiusi in isolamento per comporre quello che, più di un anno dopo, sarebbe diventato Drunk Tank Pink, un album nato fra otto mura (dipinte di rosa) e solo successivamente portato in studio dal produttore James Ford, che è dietro a una bella fetta dell’indie rock degli ultimi quindici anni.
Il prodotto di un lavoro perlopiù solitario, Drunk Tank Pink conserva però una certa leggerezza propria della sfacciatezza degli Shame, ma in questo caso non più ancorata al britpop. Le influenze si spostano invece negli Stati Uniti, prima fra tutte quella dei Talking Heads soprattutto nella prima metà dell’album (March Day, Nigel Hitter, Water in the Well), ma anche i più recenti Parquet Courts, che con David Byrne condividono quel tipo di cantato sincopatico, e che con i prodotti indie rock a firma James Ford condividono invece i riff taglienti e accattivanti. Ad una prima metà scoppiettante si aggiungono Born in Luton e Snow Day, tra i punti più alti dell’album, in cui gli Shame sperimentano con la struttura dei pezzi, rallentando il tiro nei momenti più inaspettati. Snow Day apre la seconda metà dell’album col tono quasi delirante di Steen che qui e in altri momenti (Station Wagon, Human for a Minute) ricorda un giovane Aidan Moffat (Arab Strap). Imperdibile, poi, il trio tiratissimo Great Dog, 6/1 e Harsh Degrees – di quelli che più di tutti ti fanno mancare la musica dal vivo.
Eredi di un genere relativamente saturo, agli Shame non resta che partire da ottime idee e mescolare il tutto in un prodotto che funzioni, senza prendersi troppo sul serio: così Drunk Tank Pink suona familiare ma mai prevedibile, mai troppo leggero né troppo cupo, e soprattutto mai noioso.
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