John Peel: l’ultimo Deejay
a cura di Riccardo Bertoncelli
Senza la sveglia di un anniversario, senza fanfare mediatiche e bolli critici è uscito un bel volume che racconta la figura di John Peel, uno dei più grandi disc jockey di tutti i tempi. L’ha pubblicato Faber & Faber e porta la firma di un innamorato giornalista, David Cavanagh, che a nome di tanti ragazzi della sua generazione si è sdebitato andando a studiarsi migliaia di scalette nel profondo degli archivi BBC, l’azienda (statale!, ma quanto diversa dalla RAI) per cui Peel lavorò dal 1967 al 2004, anno della sua morte. Quelle scalette Cavanagh le ha esaminate, interpretate, selezionate, per capire non solo quanto la musica e la fruizione della musica siano cambiate in Gran Bretagna nella seconda parte del Novecento ma quanto Peel sia stato influente in un tale processo di cambiamento, così da poter essere considerato davvero il Grande Vecchio responsabile di tante prodigiose scoperte (di tanti misfatti, per dirla dall’altra parte) – un discorso fra l’altro non solo Brit, visto come le onde delle sue trasmissioni si sono propagate in tutta Europa e anche qui, per quanto il suo da noi sia sempre stato un nome per pochi. Il titolo, Good Night And Good Riddance, merita una spiegazione. È il commiato usato per anni al termine delle sue maratone radio, spesso nelle ore piccole, e si potrebbe tradurre con «buona notte, e anche stasera ce ne siamo liberati», o magari meglio «ve ne siete liberati», con un mix di sollievo, humour e perfidia che rende bene lo stile del nostro imprevedibile affabulatore.
John Peel in realtà di cognome faceva Ravenscroft ed era figlio di un agiato commerciante di cotone, nato in un borgo vicino a Liverpool di beatlesiane memorie, Wirral. Nel 1960, a vent’anni compiuti, il babbo lo mandò negli Stati Uniti per certi suoi rapporti commerciali e senza volerlo gli cambiò la vita; perché lo smemorato John dimenticò subito il cotone e si buttò invece a fare il giornalista, di cronaca prima che di musica, e poi il disc jockey nell’accezione antica del termine – uno alla Wolfman Jack, il «Lupo solitario», di quelli che mettevano su i dischi preferiti senza pensare troppo alle classifiche e ai padroni del vapore, inframmezzando gli ascolti con chiacchiere sulla propria vita e dintorni.
Peel fece quello per anni, per emittenti southern come la KLIF di Dallas e la KOMA di Oklahoma City, e quando tornò in Inghilterra, nel 1966, aveva un solido mestiere che però temeva non interessasse a nessuno. La BBC neanche a parlarne, quei signorini volevano solo singoli di successo; forse però le radio pirata, che giusto in quel periodo si erano accorte di quanto bollisse in pentola oltre a Beatles-Rolling- Animals e sguazzavano beate nel tantissimo & meraviglioso che la Beeb sdegnosamente scartava. Fu proprio a una di quelle emittenti che trasmettevano fuori dalle acque territoriali britanniche, Radio London, che Peel approdò nell’estate del 1967, coltivando subito un aromatico programma, «The Perfumed Garden», presto diventato leggenda.
Cavanagh inizia il libro con quattro scalette colte in quel giardino, e già si capisce: Donovan, Jimi, i Jefferson, i Mothers Of Invention, Country Joe, i Big Brother, sapientemente intervallati con maestri del black come Muddy Waters, Jimmy Reed, Freddy King, più magnifici perdenti come Roy Harper o Tim Hardin. È l’estate di Monterey e del Sgt. Pepper, non si potrebbe essere più lucidi e profetici. Peel adora i Beatles ma capisce subito che il Brave New World non finisce lì, semmai lì comincia. Ha calato il casco dell’audace esploratore e in uno dei suoi primi viaggi intercetta Captain Beefheart, all’esordio di Safe As Milk, e lo introduce al basito pubblico in ascolto. Confesserà poi che è lui e non altri il suo preferito: e l’album perfetto di tutti i tempi, quando verrà il momento, sarà Trout Mask Replica.
Il 14 agosto 1967 le radio pirata chiudono, per ordine della Sua Graziosa Maestà. Peel ha un attimo di sbandamento ma giusto un attimo, perché la nemica BBC lo sorprende ingaggiando lui e altri bucanieri dell’etere per un canale nuovo di zecca, Radio 1, che nelle intenzioni dovrebbe catturare il pubblico giovanile rimasto a orecchie asciutte una volta ammainato il Jolly Roger. È un esperimento azzardato, non tutti sono sicuri che il passaggio dalla clandestinità all’ufficialità possa avvenire senza compromessi. Peel però è una testa di granito e un vulcano, e nel giro di poco trova spazio senza sacrificare nulla del suo stile. Fa la sua tana a «Top Gear» e per un anno e mezzo scava un buco ancora più profondo con una trasmissione notturna oggi dimenticata, «Night Ride», dove sfoggia il suo caratteristico eclettismo e non ha paura di alternare Jeff Beck e Penderecki, i Who, Louis Armstrong e Theodorakis, di intervistare John e Yoko all’inizio dei loro giochi proibiti e saccheggiare l’archivio etnico della BBC mentre presenta sconosciuti maestri come John Fahey e Terry Riley. «Top Gear» è diverso ma egualmente stimolante.
Ferme restando la mutevolezza e la libertà di trasmettere anche un dimenticato oldie, se viene l’estro, John Peel si concentra sui nomi nuovi e dà spazio ai ragazzi del prog, del pub, del glam, cogliendo appieno la vitalità della nuova scena Brit ed esaltandola, promuovendola. Sceglie Bowie quando è uno spaesato personaggio in cerca d’autore, lancia i neonati King Crimson, appoggia la scuola di Canterbury prima ancora che qualcuno trovi il nome per «quella cosa».
Nel 1973 si innamora di «Tubular Bells» e trasmette quel Virgin V2001 senza esitazione e senza vergogna, tutto intero, contribuendo a trasformare un probabile pulcino nero in un cigno da milioni di copie. Prende l’abitudine di invitare giovani band in studio e di metterle alla prova registrandole dal vivo. Sono le mitiche «Peel Sessions», impagabili testimonianze di storia rock in anni cruciali, i ‘70 e gli ‘80. Quando arriva il punk, Peel ha trentasette anni e «non credere a chi ha più di trent’anni», gira ancora quel motto. Macché. John sente il primo LP dei Ramones e confessa di avere provato l’identica scossa che a suo tempo gli procurò il primo ascolto di Little Richard.
Non conduce più «Top Gear», ora ha un proprio «John Peel Show» e lì martella con Tommy Ramone e i nuovi scandalosi incazzati, che come sempre mescola a beautiful losers e a tutto quel che gli piace. C’è chi si scandalizza e lo sommerge di lettere di protesta; lui tira dritto, anzi, quella reazione gli sembra la prova provata che è sulla corsia giusta. Il fuoco arriva anche dall’altra parte, dai superiori, visto che la BBC ha dichiarato guerra ai Pistols e a tutti quei pericolosi sovversivi. «Non è che Peel sta trasmettendo qualcosa di punk?», chiedono un giorno al funzionario di turno. «Sono settimane che praticamente non fa altro», è la candida risposta.
Sarà l’ultimo periodo di grande divertimento, quello del punk e poi della new wave, e per citare un altro gruppo preferito, cocchi suoi veramente, scoperti nutriti accuditi, i Fall di Mark E. Smith. Anche dopo tuttavia Peel non smetterà le sue abitudini, da cinquantenne e poi da sessantenne, vivendo con disincantato dispiacere il passaggio dal vinile al cd e assistendo senza drammi alla fine del rock e all’apparire di quel «chissà cosa» che le nuove generazioni e le nuove tecnologie modellano a partire dalla metà degli anni Novanta.
La BBC è sempre la sua casa, anzi, la stima e la popolarità che lo circondano sono tali che l’emittente prova ad affidargli programmi di più larga diffusione, per un pubblico non specialista. John onestamente si presta ma poi torna nella tana del suo show, meglio se a tarda ora, quando l’atmosfera congiura per un po’ di esoterismo e carboneria e quattro chiacchiere in libertà. Vive il grunge senza troppi entusiasmi e il Brit Pop con il giusto snobismo, ma ha sempre le antenne fini e il gusto di coinvolgere i reietti, gli strani, i «non saranno famosi». Le scalette degli ultimi anni traboccano di fuochi fatui che nonostante tutto Peel ha voglia di ficcarsi nelle orecchie, invitando gli ascoltatori a fare altrettanto. Nel 1999 compie sessant’anni, un’età che agli inizi delle sue avventure radio neanche un marziano avrebbe giudicato plausibile per un disc jockey. Eppure nessuno chiede il suo pensionamento, anzi, è più vivo, sveglio e curioso di tanti ragazzi che si affannano al microfono sbandierando la loro presunta «new thing». Da quella postazione gli viene facile guardare alla Gran Bretagna e a quanta strada ha fatto da quando era tornato dagli States con la testa piena di sogni e di musica. Il cambiamento è merito anche suo, della colonna sonora e degli stimoli forniti per decenni alle nuove generazioni, a dare voce alle istanze più vive e sane della società. Il senso di Good Night And Good Riddance è anche questo, ben spiegato nel sottotitolo: «Come trentacinque anni di John Peel hanno contribuito a modellare la vita di oggi». E molto opportunamente David Cavanagh ha voluto che per ognuna delle 235 scalette selezionate ci fosse un riassunto degli avvenimenti del giorno, di quel giorno di emissione, per rimarcare come la musica non vive su Plutone ma è calata nella storia quotidiana, la anticipa e la segue, la influenza e ne è influenzata.
Nelle sue incontinenti affabulazioni, Peel parlava volentieri dei fatti suoi e gli capitò di trattare anche il tema della morte. «Ho sempre immaginato di morire finendo sotto il rimorchio di un camion mentre cercavo di leggere un titolo su una cassetta. E il commento di tutti sarebbe: “Ecco, ha trovato la morte che voleva”. Beh, molto sinceramente voglio dirvi che non è proprio quella la morte che vorrei». Il destino gli dà retta. Muore per un infarto durante un viaggio in Perù, a Cuzco, un giorno dell’ottobre 2004. Oggi avrebbe settantasei anni e nessuno si azzardi a pensare che per banali questioni di età non avrebbe fatto il disc jockey ancora adesso, ritagliandosi qualche angolino notturno del palinsesto BBC sino al fatidico «good night and good riddance».
Riccardo Bertoncelli | musicajazz
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