Elvis Costello - Hey Clockface (2020)
di Gianfranco Marmoro
Protagonista in prima fila di quel tratto della storia del rock che va dai primi vagiti punk alla radicalizzazione indie dei tardi anni 90, Elvis Costello ha mostrato qualche lieve difficoltà a tenere il passo con l'avvento del nuovo millennio.
Dai tempi di "When I Was Cruel" (2002) a "Wise Up Ghost", la produzione di Declan Patrick MacManus, pur baciata da sprazzi di genialità creativa ("The Delivery Man", 2004), ha smarrito quel fascino rituale che riusciva a concentrare l'attenzione del pubblico anche su opere minori ("Goodbye Cruel World", "Kojak Variety") e ardite collaborazioni ("The Juliet Letters", "Painted From Memory"). Questo fino al ritorno in scena del 2018 con "Look Now", album caratterizzato non solo dalle note peculiarità della scrittura e della poetica del compositore londinese, ma da una rinnovata passione e da una capacità di stare al passo coi tempi.
Con "Hey Clockface", Costello ancora una volta ribadisce quella curiosità intellettuale e culturale che è stata sempre alla base dei suoi progetti migliori. Ripristinati i canoni compositivi più tipici e caratteristici con il precedente album, il musicista londinese riattiva anche quel raffinato eclettismo stilistico che lo ha visto passare dal punk al jazz, dal country al soul, dall'Inghilterra all'America.
A nutrire questa rinnovata eterogeneità creativa è anche la scelta di Elvis Costello di registrare l'album in tre diverse città, Helsinki, Parigi e New York, senza peraltro ricorrere ai consueti musicisti e collaboratori, fatta eccezione per Steve Nieve che ha avuto l'incarico di scegliere i membri delle session di Parigi (Le Quintette Saint Germain), e per un paio di interventi di Bill Frisell.
Il risultato è straniante e stimolante.
"Hey Clockface" è un disco posseduto da un'inquietudine che lascia il segno. Il vigore di "No Flag" e l'originalità del frizzante disco-boogie di "Hetty O'Hara Confidential" entrano con forza nel canzoniere del musicista, reclamando un posto in un ipotetico best of, due brani che beneficiano della vibrante sinergia scaturita in quel di Helsinki e che tiene banco anche nella meno incisiva ma interessante digressione blues di "We Are All Cowards Now".
Abile narratore delle incongruenza e dell'empatia umana, Costello sembra animato da una disinvoltura e da un disincanto alla Randy Newman e da uno spirito bohemienne alla Tom Waits: l'ansioso contrappunto di sax, violino e chitarra in "They're Not Laughing At Me Now", il tono mesto e funereo stile New Orleans di "I Do (Zila's Song)" e il miscuglio di swing, pop e blues di "Hey Clockface/How Can You Face Me?" sono in tal senso esemplari.
Che l'ultimo album dell'istrionico londinese sia insolito e ricco d'interesse lo si comprende già dalle prime note dell'introduttiva "Revolution #49", un brano recitato su un arabeggiante flusso orchestrale, una rinuncia al canto che si ripete nell'ancor più suggestiva ed eterea "Radio Is Everything", brano che in parte riprende le notevoli distonie jazz-pop-soul di "Newspaper Pane", una delle pagine più originali di "Hey Clockface".
Sono per fortuna ben poche e marginali le pagine meno riuscite dell'album (la troppo languida "What Is It That I Need That I Don't Already Have?" e la poco fantasiosa "I Can't Say Her Name").
In questo puzzle multicolore trovano ovviamente spazio anche gli slanci melodici più solenni, non solo l'ormai consueto richiamo a Burt Bacharach nella passionale e nostalgica "The Whirlwind" o l'elegante struttura tipica delle torch song che anima la lasciva "The Last Confession Of Vivian Whip", ma anche quella sublime arte del songwriting senza tempo e senza luogo che ha illuminato il passo di pochi autori (Jimmy Webb, Fred Neil, Harry Nilsson) che Costello raggiunge senza alcuno sforzo nella splendida "Byline", perfetta chiosa per un album meritevole di considerazione non solo da parte dei fan del musicista inglese, ma anche da parte di chi ha da tempo accantonato l'interesse per la produzione dell'istrionico autore.
Commenti
Posta un commento