Aidan Knight - Aidan Knight (2020)
di Gianfranco Marmoro
Il cambiamento non scaturisce solo da un mutamento delle circostanze esterne, ma anche da riflessioni interiori e nuove prospettive, in questo caso frutto di novità rilevanti che hanno modificato il ruolo del musicista, alle prese non solo con il ritorno alla natia terra, dopo un breve soggiorno a Berlino, ma anche con la nascita del primo figlio, che ha convinto Knight a lasciarsi indietro le tribolazioni derivanti dalla dipendenza dall’alcol.
Questa consapevolezza e questa maturità segnano profondamente lo stile del musicista, che passa dalle sognanti e fluttuanti sonorità di “Each Other” a una più aspra e dettagliata scenografia musicale. Tutto è più diretto, essenziale. Ciò che resta intatto è la schiettezza poetica che permette all’ascoltatore di essere partecipe, e non solo spettatore, dei sogni e delle aspirazioni di queste nuove undici canzoni.
Non sorprende, quindi, la flessibilità pop di tracce come “Julia In The Garden” e “La La”, che pescano in strutture cantautorali familiari senza suonare passatiste. Questa fulminea capacità comunicativa trova vigore creativo e pienezza espressiva nelle avvincenti trame di “Sixteen Stares” e “Veni Vidi Vici”, due brani dove sobrietà e ispirazione vanno felicemente a braccetto, rivelando altresì l’influenza delle ultime frequentazioni dell’artista, ovvero Andy Shauf e Sufjan Stevens.
Ciò nonostante, resta evidente l’influenza stilistica del conterraneo Neil Young, della cui magica indolenza si nutrono pagine malinconiche e trascinanti come “Mary Turns The Pillow” e “Houston TX” (quest’ultima un esplicito plagio di “Old Man”).
L’aver tenuto fuori dalla porta potenziali fonti d’ispirazione e contagio, preferendo ascolti lontani dal proprio habitat artistico (Arthur Russell, Bill Evans e Oscar Peterson) ha dunque svelato allo stesso autore energie e debolezze del proprio status artistico, e il risultato, al contrario di quanto immaginabile, è più che positivo.
Aidan Knight ha trovato la chiave di lettura per poter affrontare vecchi dolori senza restare preda della disperazione (“Rolodex”), tiene abilmente a bada l’ansia che accompagna la solitudine (“Renovation”) e raggiunge alfine la magnificenza armonica con il solo ausilio della voce, mai così bella, e del suono del piano (“These Days”), suggellando così una maturità artistica finalmente scevra da trucchi e inutili espedienti sonori. Un trionfo di onestà e ispirazione, destinato a trovare posto in molte liste di fine anno.
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