Aidan Knight - Aidan Knight (2020)

di Gianfranco Marmoro 

Inutile negarlo, qualcosa è cambiato. L’umanità non è più la stessa da quando lo spettro del Covid-19 aleggia sulle nostre vite, abbiamo un po’ tutti riscoperto la naturale vulnerabilità dell’essere umano e l’onnipotenza è ormai vessillo solo di chi si ostina a giocare al ruolo di padrone della Terra. Ed è da queste introspettive riflessioni che prende spunto il ritorno discografico del musicista canadese Aidan Knight, giunto al quarto disco solista dopo le pregresse esperienze con vari gruppi, dei quali latitano le tracce discografiche: i Maurice, i Toco & Jorge, i Vegan Holocaust e i Counting Heartbeats.

Il cambiamento non scaturisce solo da un mutamento delle circostanze esterne, ma anche da riflessioni interiori e nuove prospettive, in questo caso frutto di novità rilevanti che hanno modificato il ruolo del musicista, alle prese non solo con il ritorno alla natia terra, dopo un breve soggiorno a Berlino, ma anche con la nascita del primo figlio, che ha convinto Knight a lasciarsi indietro le tribolazioni derivanti dalla dipendenza dall’alcol.
Questa consapevolezza e questa maturità segnano profondamente lo stile del musicista, che passa dalle sognanti e fluttuanti sonorità di “Each Other” a una più aspra e dettagliata scenografia musicale. Tutto è più diretto, essenziale. Ciò che resta intatto è la schiettezza poetica che permette all’ascoltatore di essere partecipe, e non solo spettatore, dei sogni e delle aspirazioni di queste nuove undici canzoni.

Non sorprende, quindi, la flessibilità pop di tracce come “Julia In The Garden” e “La La”, che pescano in strutture cantautorali familiari senza suonare passatiste. Questa fulminea capacità comunicativa trova vigore creativo e pienezza espressiva nelle avvincenti trame di “Sixteen Stares” e “Veni Vidi Vici”, due brani dove sobrietà e ispirazione vanno felicemente a braccetto, rivelando altresì l’influenza delle ultime frequentazioni dell’artista, ovvero Andy Shauf e Sufjan Stevens.
Ciò nonostante, resta evidente l’influenza stilistica del conterraneo Neil Young, della cui magica indolenza si nutrono pagine malinconiche e trascinanti come “Mary Turns The Pillow” e “Houston TX” (quest’ultima un esplicito plagio di “Old Man”).

L’aver tenuto fuori dalla porta potenziali fonti d’ispirazione e contagio, preferendo ascolti lontani dal proprio habitat artistico (Arthur Russell, Bill Evans e Oscar Peterson) ha dunque svelato allo stesso autore energie e debolezze del proprio status artistico, e il risultato, al contrario di quanto immaginabile, è più che positivo.
Aidan Knight ha trovato la chiave di lettura per poter affrontare vecchi dolori senza restare preda della disperazione (“Rolodex”), tiene abilmente a bada l’ansia che accompagna la solitudine (“Renovation”) e raggiunge alfine la magnificenza armonica con il solo ausilio della voce, mai così bella, e del suono del piano (“These Days”), suggellando così una maturità artistica finalmente scevra da trucchi e inutili espedienti sonori. Un trionfo di onestà e ispirazione, destinato a trovare posto in molte liste di fine anno.

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