Il melting pot originale

L’album “Creuza de Ma” di De André è un’odissea moderna nel Mar Mediterraneo

“Creuza de Ma”, lo premetto subito, è il mio album italiano preferito di sempre. Ma mi rendo anche conto dell’immediato paradosso, non essendo in lingua italiana, ma in uno strano patois genovese antico che neanche esiste più, se mai è esistito. Anzi, una sorta di miscuglio di fantasia di varie lingue e fonemi mediterranei che è stato inventato per l’occasione, su una base di genovese, che per secoli è stata la lingua franca dei commerci e delle rotte sul mare, incorporando già di suo centinaia di parole di origine straniera, islamica in particolare.

Il risultato è un linguaggio che Fabrizio definisce “di sogno”. Nella ri-edizione dell’album del trentennale (curatissima da Sandro Veronesi) scrive: «Eccoci ai brani che qualcuno definisce “al pesto”… Il linguaggio sia da un punto di vista musicale che letterario si può definire “del sogno”, che poco ha a che spartire con la realtà…mai il bouzouki era stato suonato come strumento solistico, mai il genovese aveva assunto le caratteristiche di una lingua ligure/arabo/turca. Nella stessa Genova qualcuno mi ha chiesto “ma in che lingua hai cantato?”. Ho riposto “in una lingua del sogno che suonasse come idioma comune a tutti i popoli del Mediterraneo”. Anche quella speranza si è ovviamente rivelata un sogno… Le ho scritte per molti motivi, fra cui riconoscermi in una etnìa in un universo più vasto, quello del Mar Mediterraneo.

Poi, perché la mia bussola mi ha sempre indicato qualsiasi direzione che non fosse la più sicura, quella scelta dalla maggioranza, mi ha sempre indicato mondi marginali, minoranze, differenze dalla norma, anche linguistiche: quei suoni strani, quelle parole inusuali che sembravano strappi di arpa, richiami di volpe, fruscii di foglie, sono sicuramente più vicini agli echi della natura di quanto non suonino le parole delle lingue colte…». Terminando il pensiero con una citazione dedotta da Pasolini: «Il dialetto è l’autenticità».

Sappiamo quindi che il Virgilio che ci conduce lungo questo viaggio è in cerca di autenticità. E di un sogno, una irrealtà. Forse una metafora, forse un viaggio immaginario. Che parta da Genova, e vada, oltre il Monte di Portofino, e come nel viaggio di Ulisse non abbia come fine l’approdo, ma la navigazione che ci sta in mezzo, le persone i luoghi gli incontri. Questo alone di sospensione fra realtà e sogno, e la lingua mista, chiama necessariamente una musica meticcia, intrecciata, mischiata, che sappia farti viaggiare come i libri di Salgari quando eravamo bambini. Dev’essere anch’essa una invenzione.

Spesso parliamo di melting pot, quando si cita New York o Londra, New Orleans o Parigi, posti dove nel pentolone cuoce di tutto. Pensate al Mar dei Caraibi, dove navigando qui e là senti reggae, salsa, cumbia, vallenato, soca, r’n’b dalla Florida, son, reggaeton, merengue, compass e qualche altra decina. Ma il Mediterraneo è il vero melting pot originale, diecimila anni garantiti, e tutt’ora in attività.

Genova è una delle capitali storiche di questo Mare. Una città stretta fra le montagne e il mare, di cui aver paura e da cui essere irrimediabilmente attratti. Genova è Repubblica Marinara, è la voglia di scoprire una via a Occidente per il Giappone, sono battaglie con i feroci Saladini, ma anche i carrugi e il porto, i vicoli che portano dai monti e dalla città fino al mare, sono le terrazze strappate alla montagna e coltivate a vite, sono commerci e incontri e conoscenza di terre lontane, abitate da persone diverse, che hanno in comune il Mediterraneo. Questo viaggio che si legge in filigrana attraverso l’album è un omaggio a quella che è stata la culla delle civiltà antiche: fenici, greci, romani, sardi, mori, catalogni, arabi, turchi, ebrei, egizi. Il Mare nel quale siamo nati e ci siamo evoluti, stratificati gli uni sugli altri, con sempre questa linea d’orizzonte verso la quale guardare.

Il melting pot del Mare Nostrum è straordinario – pizzica, tarantella, musica andalusa, lo gnawa marocchino, rai algerino, blues del deserto, la musica classica araba e polifonie corse, il rembetika greco, la musica medio-orientale, dall’Egitto alla Siria, la musica turca, quella greca. Ma per fare una sintesi serve qualcuno che padroneggi la materia. Perché va sottolineato che il miracolo laico di questo disco è anche l’incontro, stelle allineate e momento perfetto per entrambi, fra Fabrizio De Andrè e Mauro Pagani.

Pagani è stato il folletto della PFM originale, flauto e violino, fuoriuscito perché troppo stretto nel prog e, da subito, ricercatore di musica etnica in generale, araba e mediterranea in particolare. Già dal 1978 ha pubblicato un album che sa di world music, ha lavorato con Moni Ovadia e il Gruppo Folk Internazionale, ha partecipato a un progetto di musica strumentale e vocale medievale con Alia Musica, e con Carnascialia insieme a Demetrio Stratos e alcuni musicisti del Canzoniere del Lazio ha ripreso le sonorità popolari dell’Italia centrale e meridionale.

In quegli anni non era facile mettere le mani su dischi o cassette che venissero dai quattro angoli del Mediterraneo. Pagani colleziona “bulimicamente” questo mondo fatto di voci straniere, strumenti a plettro e percussioni diverse, musica popolare e musica classica. Impara a suonare bouzouki e oud, il liuto arabo, li compra in mercatini e botteghe: l’oud – che ha un ruolo centrale nel suono del disco – lo trova su una bancarella al mercato di Algeri, fatto di legno delle cassette della frutta, il rosone con un pezzo di plastica, e ha un suono “magicamente meraviglioso”.

Nel disco ci sono molti strumenti inusuali: “Creuza de Ma” si apre con un assolo di gaida macedone, sorta di cornamusa diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo. Nelle intenzioni di De Andrè è come un banditore che annuncia la storia, poi arrivano bouzouki e viola a plettro. A mano a mano, compaiono bouzouki e oud, ovviamente, ma anche shannaj e saz turco e marimba, flauto traverso e a canna, chitarra andalusa, mandolini, chitarra ottava, oltre a percussioni di ogni tipo e in “Sinan Capudàn Pascià” anche la batteria di Walter Calloni.

Non è folklore, è trovare una alchimia fra musica e parola, quelle parole tronche e ricche di dittonghi e iati che la lingua genovese, secondo De Andrè la meno neolatina di tutte, può offrire. Un’altra caratteristica del genovese è la sua gentilezza dei termini. Ci sono alcune canzoni che toccano temi con un linguaggio nudo e crudo, che tradotto in italiano suonerebbe troppo forte, volgare. “Jamin-a”, “lupa di pelle scura” è una canzone carica di sensualità, carica erotica violenta, un orgasmo: «Jamin-a è la compagna di un viaggio erotico che ogni marinaio spera, anzi pretende di incontrare in ogni posto, dopo le pericolose bordate per colpa di un mare nemico o di un comandante malaccorto».

Mussa e belìn suonano accettabili, le controparti italiani difficili da accettare, in una canzone. Stessa cosa per quando in “Creuza De Ma” si parla di incontrare ragazze per bene, che “ti peu ammiàle senza u gundun”, ragazze che (a differenza delle abituali, suppongo) puoi ammirare anche senza il preservativo. Proprio per questo, è insolito e uno spettacolo linguistico vedere Fabrizio che si lascia andare in descrizioni mai concesse finora. Ironico come sempre, ma anche sensuale, decisamente sexy. Una lingua sconosciuta può fare miracoli…

Se la gaida iniziale è il segnale del levàte le ancore e l’inizio del viaggio, bisogna sapere che non sarà un viaggio di piacere, geografico, ma un viaggio dell’anima, che tocca luoghi e persone simboliche prim’ancora che reali. Su rotte antiche, come quella che porta a Sidone, città libanese dove “si è inventato l’alfabeto e il vetro”, e che De Andrè vede martoriata sotto i carri armati israeliani durante la guerra del 1982. Immagina un padre, povero e lacero, con in braccio il cadavere del suo bambino «…ora grumo di sangue orecchie denti da latte/e gli occhi dei soldati cani arrabbiati con la schiuma alla bocca/ cacciatori di agnelli a inseguire la gente come selvaggina».

È cantata con accompagnamento essenziale, ed è di una violenza, di un dolore, da mozzare il fiato. C’è poi la storia di Cicala, il furbo 19enne genovese catturato in battaglia navale a Djerba, che salva la barca dei suoi nuovi padroni turchi e con sapiente opportunismo riesce ad arrampicarsi nella società islamica fino a diventare Gran Visir col nome di Sinan Capudan Pascià, unica differenza è che ora «bestemmia Maometto e non Dio». Ad accompagnare c’è una sorta di funk mediterraneo unplugged, se posso chiamarlo così, il brano più ritmico di tutto il disco.

C’è la figura de “A Pittima”, colui che nella società genovese riscuoteva i soldi per conto dei creditori con ogni mezzo possibile e ci sono le prostitute di “A Dumènega”, il giorno libero in cui possono passeggiare per la città, insultate e derise dal popolino bigotto e dai benpensanti, uno dei quali magari un marito inconsapevole: tutto questo su una musica che sottolinea questa confusione di urla e bimbi che chiedono gli sghei «per andare al casin».

È una rivisitazione, su ritmo popolare dei secoli andati, del tema di Bocca Di Rosa, con qui – appunto – la lingua a mascherare le oscenità del testo. Alla fine il viaggio si ricollega idealmente, come fosse un controcampo, con la partenza all’inizio: il marittimo che parte in “Da A Me Riva” vede il fazzoletto bianco della moglie che lo saluta dal molo in controluce, rimira il piccolo corredo da navigazione nel baule, «tre camicie di velluto, due coperte un mandolino e un calamaio di legno duro/ e in una berretta nera la tua foto da ragazza per poter ancora baciare Genova/ sulla tua bocca in naftalina». Si riparte.

Non è un viaggio lungo, in minutaggio, ma intenso e fascinoso, capace di portarti davvero in un altra dimensione, una sorta di viaggio interiore psichedelico naturale, ondeggiante, organico. Ricordo interi pomeriggi a dondolarsi ascoltandolo, da solo o con la compagnia, su qualche barchetta davanti alle coste rocciose che salgono da Portovenere fino a Zena, sotto le montagne a strapiombo sul mare, questo passaggio abissale costellato di terrazze che per me è la Liguria.

Quel coro dondolante di “Creuza De Ma”, «eianda euè….», col sapore di «corda marcia di acque e sale che ci lega e ci porta in una creuza de ma» era il nostro Inno Regionale. In quei pomeriggi fino al tramonto negli occhi diventava inno universale. Musicalmente, una meraviglia assoluta, un capolavoro ante-litteram di quella world music che stavano esplorando in quegli anni David Byrne e Brian Eno, Peter Gabriel e David Bowie.

È noto l’apprezzamento di David Byrne per quello che secondo lui è stato uno dei dischi più importanti degli anni 80, senza uguali nel tempo (ribadito 15 anni dopo): contribuisce a questo giudizio il fatto che Byrne aveva ipotizzato, ai tempi di “My life In The Bush Of Ghosts”, un disco che raccontasse di un popolo e di una lingua ancora non scoperti. È un album che ha davvero solcato i mari e attraversato i confini.

Cantato con “quella voce”, riflessiva e drammatica, scanzonata e sottilmente ironica, spesso tutto insieme. Empatica. Voce senza tempo, esattamente come l’album. Aggiungerei che le immagini che Fabrizio – aldilà della lingua inventata – cita e richiama sono straordinarie in sé, è poesia di viaggio, è testimonianza di amore, è voglia di non avere confini.

Di mischiare la realtà con la fantasia, che è una cosa che gli è sempre riuscita molto bene. Un album concettuale, come tutti gli album di questo (nel 1984) 44enne che cesella ogni sillaba come se dovesse pronunciarla per l’eternità, come se ogni parola fosse la pietra definitiva di una strada da percorrere. Potrebbe essere una di quelle stradine, la creuza, che in Liguria separano i poderi, e le case, e scendono sempre verso il mare.

“Creuza de Ma“ come quelle increspature larghe che il soffio del vento sul mare disegna, come strade nel mare da seguire. Comunque sia, nelle sette canzoni di questo album c’è davvero un mondo, anzi più mondi, da scoprire, da cui farsi ammaliare, lungo i quali sognare. Da navigare. È vero che quando si parte, anche per un’avventura musicale, si sa quello che si lascia e non quello che si troverà. Qui De Andrè e Pagani, in una odissea moderna, han veleggiato anche per noi, e hanno riportato a casa lo scrigno del tesoro sepolto forse nella sabbia, forse fra gli scogli, del Mar Mediterraneo.

Carlo Massarini - fonte | Linkiesta

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