Steve Earle & The Dukes – Ghosts Of West Virginia (2020)

di Fabio Cerbone

Steve Earle l’outlaw socialista, l’incorreggibile rivoluzionario del country, il texano più odiato a Nashville: ci domandavamo quando avrebbe deciso di alzare la voce, e cosa avrebbe avuto da spiattellare in faccia all'attuale amministrazione americana, e se avesse o meno ripreso la lotta. Il tempo passa, la saggezza mitiga gli animi, o forse, meglio, scava in profondità, dando all’autore la consapevolezza di poter incidere con parole e musica che guardino direttamente nell’anima del suo avversario. Ed è nell’anima (e nel corpo) dell’America divisa di questi giorni che Ghosts of West Virginia prova a volgere lo sguardo: invece della battaglia, a sorpresa Steve Earle cerca il confronto, la rinconciliazione, si mette nei panni di quella gente che non la pensa come lui, che non vota come lui, che non crede in ciò in cui crede lui, ma resta comunque popolo, spesso povero, emarginato anche nell’arretratezza dei mezzi culturali, confinato in terre martoriate, sfruttate, senza molti diritti.

Una di queste è racchiusa in Ghosts of West Virginia, luogo di miniere e duro lavoro, dove prendono vita gli eventi cantati in questo album breve, dal cipiglio fieramente hillbilly, spigoloso e dagli spiccati accenti country rock rurali, inciso presso gli Electric Lady Studios di New York con ciò che è rimasto dei Dukes (se ne è andato per sempre il vecchio compagno Kelley Looney, bassista scomparso di recente e sostituito da Jeff Hill). Tutto nasce intorno alla collaborazione con una compagnia teatrale di Off-Broadway, sogno che Steve inseguiva da tempo: narrare la vicenda controversa di Upper Big Branch, una delle tragedie minerarie più grandi della recente storia americana, esplosione che uccise una trentina di operai nel 2010. La colonna sonora della pièce teatrale, intitolata Coal Country, nella quale Earle assumeva il ruolo di una sorta di coro greco, è diventata adesso un album vero e proprio, una rilettura del folklore americano nel solco di personaggi come Woody Guthrie e Johnny Cash, che aprirono la strada.

Si parte con il canto a cappella di Heaven Ain’t Got Nowhere e siamo già dentro i ritratti e le emozioni di quell’angolo di paese che emerge spesso anche dai romanzi di scrittori come Chris Offutt. "White trash" direbbe qualcuno, ma Steve Earle conosce bene la fierezza di queste persone per non averne il massimo rispetto, e il suo approccio sfiora allora compassione e orgoglio, attraversando gli orizzonti di Union, God and Country, tutto il mondo conosciuto da questa gente, prima di sprofondare nelle viscere della terra con il gotico country di Devil Put the Coal in the Ground. La voce è sempre più ispida e limitata nei registri, ma Earle la sa utilizzare a suo vantaggio: John Henry was a Steel Drivin’ Man rivisita il mito popolare di John Henry a passo di sobbalzante alternative country, Time is Nevere on Our Side e The Mine si mettono sulle tracce dei suoi maestri, Guy Clark e Townes Van Zandt, mentre la musica si fa rauca in It’s About Blood, schietto rock rurale che nel finale declama, uno ad uno, tutti i nomi delle vittime di Upper Big Branch.

If I Could See Your Face Again offre spazio per la prima volta al lato femminile di questa storia e per farlo cede il canto a Eleanor Whitmore (insieme al marito, il chitarrista Chris Mastersons, ormai un punto fermo dei Dukes odierni), prima che con la cruda Black Lung, elettriche e mandolino a intrecciarsi, si torni all’hillbilly elettrico e all’inferno della vita in miniera, seguita dal brusco honky tonk di Fatest Man Alive, ritratto dell’eroe di guerra locale Chuck Yeager (perché c’è sempre un eroe di guerra in qualsiasi contea americana, ci avete fatto caso?). Registrato in mono, a causa della parziale sordità che ha colpito Earle e che gli impedisce di cogliere la separazione audio in stereo, Ghosts of West Virginia restituisce l’immagine di un musicista che si ostina ancora a trovare le ragioni di quell’impegno civile e di quella resistenza umana che da sempre lo muovono dentro.

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