Terry Allen and the Panhandle Mystery Band - Just Like Moby Dick (2020)
di Gianfranco Marmoro
Il nome di Terry Allen è uno di quelli che difficilmente spunta fuori sulle nostre pagine quando si parla di musica americana, nonostante l’ormai settantaseienne artista multidisciplinare (pittore, scultore e musicista) sia da tempo immemore uno dei punti fermi di quel fronte cantautorale ancorato alle radici e alla tradizione folk e, in questo caso, alla musica texana.
Chissà, forse un giorno parleremo di quel gioiellino del 1979 “Lubbock (On Everything)” ristampato dalla Paradise Of Bachelors tre anni fa, sancendo l’interesse dell’etichetta americana per il ritorno in scena dell’artista, dopo il successo critico dell’album “Bottom Of The World” del 2013.
Quel che serviva ad Allen, per consolidare la sua presenza nel panorama contemporaneo era un produttore che riuscisse a estrapolare dall’apparentemente austero e ortodosso stilema artistico tutta quell’eccentrica magia e vivacità allegorica, che lo aveva spinto verso l’arte della pittura e della scultura.
Quest’uomo e produttore risponde al nome di Charlie Sexton, perfetto complice e compagno di ventura per un musicista in ottima forma, abile nel raccontare storie al confine tra l’humour e il terrore, con una malinconica ironia che ha il profumo grottesco e spirituale della sua terra, il Texas.
Non è un disco facile da raccontare, “Just Like Moby Dick”, Allen non solo si avvale di vecchi amici ma apre le porte a nuove collaborazioni, trasformando la Panhandle Mystery Band in un fantasmagorico ensemble circense, le cui potenzialità esplodono nel sarcastico e pungente trittico di “American Childhood”, dove infanzia (“Civil Defense”) e amara consapevolezza (“Bad Kiss”) si fondono nell’ennesimo racconto in bilico tra commedia e tragedia, intelligentemente sottolineato da un delizioso intreccio di dobro e fiddle, adagiato su tempi armonici e ritmici giocosamente retrò (“Little Puppet Thing”).
Il legame con il libro di Herman Melville (“Moby Dick”) è un pretesto per mettere in fila storie dal forte impatto allegorico, mentre l’architettura musicale passa con naturalezza dalle grazie celtic-folk vestite di country dell’evocativa “Death Of The Last Stripper” alle intense e crepuscolari dolcezze della steel guitar che sottolineano una delle melodie più memorabili del disco: “All That's Left Is Fare-Thee-Well”, scritta con Joe Ely e Charlie Sexton.
Il delicato surrealismo che pervade il nuovo album di Terry Allen è una vera manna, poco importa se tra le pieghe dell’eccellente “All These Blues Go Walkin' By” si scorgono temi lirici affini alla Band o all’Elton John di “Tumbleweed Connection”, il musicista americano è riuscito nella difficile impresa di dar vita a una rappresentazione musical-teatrale, senza che ciò avvenga su un vero e proprio palco, citando non solo Tom Waits (“City Of The Vampires”), ma perfino Bertolt Brecht e Kurt Weill (“Pirate Jenny”), lasciando infine calare il sipario mentre scivolano le note di un’estatica ballata country-western, dove Terry Allen concentra tutta la sua saggezza in una sola frase: metà del mondo è fregata/ l'altra metà è pazza.
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