Pearl Jam – Gigaton (2020)

di Ernesto Assante

Sei anni e mezzo sono tanti. In un simile lasso di tempo si cambia, si pensa ad altro, si provano esperienze differenti, si viaggia, si parla, si pensa, si scrive, e alla fine non si è mai come quelli di sei anni e mezzo prima. Quindi pensare che i Pearl Jam di Gigaton, il loro nuovo album in uscita il 27 marzo, arrivato da noi a sei anni e mezzo dal precedente Lightning bolt, siano gli stessi di prima è per forza di cose sbagliato. Oppure, se così fosse, sarebbe una cattiva notizia, perché una band che resta uguale a se stessa dopo sei anni e mezzo di silenzio discografico sarebbe una band irrilevante e pronta per la pensione. E invece, per nostra e loro fortuna, non è così. Gigaton è un ulteriore passo avanti nel lungo e affascinante percorso della band di Seattle, un album in cui il gruppo fotografa se stesso esattamente com'è oggi, con tutto quello che questi anni hanno portato con loro in termini di maturità, di scoperte, di desideri realizzati e di ipotesi abbandonate, di gioie e inevitabilmente di dolori, di verità e bugie. Anni che hanno trasformato i Pearl Jam e li hanno fatti diventare non un oggetto monolitico e intoccabile, ma un mosaico che offre nell'insieme un'immagine unica e riconoscibile ma che è composta di frammenti, delle personalità diverse e separate dei suoi componenti.

Ci sono molte novità, dunque, e anche delle solide certezze in questo nuovo lavoro, e la certezza più importante è quella che i Pearl Jam non si sono persi per strada, non si sono snaturati, non fanno finta di essere diversi da come sono e da come sono stati. C'è tutto il loro mondo, dunque, fatto di passione e di rock, degli immancabili echi degli Who e dei Led Zeppelin, e moltissime novità, in canzoni che alle volte sorprendono, altre commuovono, spesso scuotono, ma convincono e convinceranno nelle prossime settimane fan vecchi e nuovi. È tutto molto preciso, a fuoco, centrato, anche quando la band si muove in territori diversi da quelli abituali, quando si sentono i segni di questi ultimi anni passati sperimentando cose nuove e suonando in tour, merito soprattutto della produzione di Josh Evans, che per la prima volta prende le redini del lavoro di studio della formazione americana. E poi, come accade solo raramente con le grandi canzoni, l'album parla di noi, dei nostri tempi, addirittura dell'attualità, anche se quando i brani sono stati scritti il mondo di certo non era quello che stiamo vedendo e vivendo in questi giorni. Questo perché Eddie Vedder e i suoi amici non hanno mai perso la capacità di leggere il presente e di raccontarlo, nel bene e nel male: in Who ever said, il potente rock che apre l'album, sembra un invito a non mollare in questi giorni difficili, Superblood wolfmoon che segue, insiste sulla speranza e sul coraggio, persino il terzo brano, Dance of the clairvoyants, uno dei singoli che hanno anticipato l'uscita dell'album, con un sound nuovo e diverso dal solito, sembra scritto guardando fuori dalle finestre delle nostre case oggi.

In tutto l'album ci sono riferimenti alla storia del rock, ai Queen come agli Who, ai Talking Heads come a Neil Young, ai Soundgarden o ai Pink Floyd, ma non c'è mai la voglia di ripetersi, di restare nel binario del già visto e sentito, anche quando lo stile e il suono della band si fanno più riconoscibili come in Never destination o nel punk energico di Take the long way. Non mancano i riferimenti politici, le critiche a Trump, non manca l'amore e la poesia, in un album particolarmente lungo e ricco, dove ognuno dei componenti della band ha il suo spazio e il suo ruolo e tutti hanno collaborato alla scrittura, Jeff Ament, Stone Gossard, Mike McCready, Matt Cameron. Ma è nel finale, nei tre brani che chiudono l'album, che Gigaton brilla magnificamente, con Comes Then Goes, acustica e emozionante, Retrograde, splendida ballata, e con River Cross perfetta conclusione di un disco che non conosce un momento di noia e che offre molti spunti per immaginare non solo il presente dei Pearl Jam ma il loro, luminoso, futuro.

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