Jonathan Wilson – Dixie Blur (2020)

di Marco Boscolo

Nell’arco di dieci anni avevamo imparato a conoscere e sempre più apprezzare Jonathan Wilson come il musicista/produttore che fa tutto da sé. Un vero e proprio autarchico del self-made che, da Gentle Spirit (2011) e Fanfare (2013), in perfetto equilibrio tra tradizione e sperimentazione, è definitivamente maturato nell’ultimo Rare Birds (2018). Era quello un disco che metteva a disposizione di un songwriting completamente a fuoco tutto l’armamentario tecnico accumulato producendo dischi per, tra gli altri, Father John Misty e Laura Marling, oltre che girando con l’ultimo progetto di Roger Waters, US+THEM.

Qui le coordinate, invece, cambiano profondamente, nell’attitudine ma non nella sostanza. Su suggerimento, pare, di Steve Earle, uno che se ne intende di cantautorato e tradizione americana, Wilson ha lasciato la Los Angeles dove si è insediato quindici anni fa per raggiungere Nashville e registrare con i migliori turnisti sulla piazza. Ne salta fuori una band di professionisti navigati, musicisti per cui il sound americano è direttamente impresso nel DNA: Mark O’Connor (violino), Kenny Vaughan (chitarra), Dennis Crouch (basso), Russ Pahl (pedal steel), Jim Hoke (harmonica e fiati), Jon Radford (batteria) e Drew Erickson (tastiere). In aggiunta, la produzione è divisa metà con Pat Sansone dei Wilco, già al lavoro sugli archi di Fanfare. Anche il metodo, oltre che la dimensione collettiva, è stravolto. Si passa dai tempi lunghi con cui Wilson ha costruito i brani e le registrazioni dei primi tre dischi, a un lavoro intensivo: sei giorni in presa diretta al Cowboy Jack Clement’s Sound Emporium Studio, nessuna sovraincisione a posteriori, buona la prima o quasi.

Ha quasi il sapore del ritorno a casa, dalla California al Tennessee, confinante con quella Carolina del Nord dove Wilson è nato e cresciuto. Bluegrass, country e Americana si fondono con la vena malinconica di questi quattordici brani, spesso appoggiati su ritmi larghi, a cui la band sa dare una tridimensionalità che forse era un po’ mancata ai primi dischi del musicista (andando a cercare il pelo nell’uovo). I quattordici brani che ne risultano sono i più coesi che Wilson abbia mai scritto, da incastonare in una ideale collana dei classici a stelle e strisce (Dylan, Neil Young, Crosby, ma anche Cat Stevens, Wilco e Jackson Browne), ma senza il timore di guardare anche altrove. Si assimilano così il gusto per un le suite pastorali di pinkfloydiana memoria (O’ Girl), un intimismo di marca Elliot Smith (Fun for the Masses), ascendenze europee (centro-europee) per gli arrangiamenti (Pirate), atmosfere sospese che riprendono i riverberi Laurel Canyon (Riding the Blinds). E c’è lo spazio per la California che parla spagnolo in El Camino Real, che evoca il percorso delle missioni messicane che parte dalla Baja California e arriva fino alla Bay Area e oltre.

Dixie Blur è personalissimo e universale, complesso eppure semplice, apparentemente diretto, ma capace di sorprendere anche al decimo ascolto. Che Wilson avesse qualcosa da dire lo avevamo già capito, ora ha avuto anche il coraggio di farsi aiutare a dirlo meglio, come non lo aveva mai detto: canzoni destinate a restare a lungo in circolo nelle vene dell’America e nelle nostre.

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