Asgeir – Bury The Moon (2020)
di Gianfranco Marmoro
Non deve essere stato facile per Ásgeir Trausti Einarsson vestire i panni della next big thing della musica pop, soprattutto per la natura algida e crepuscolare della terra natia, l'Islanda, che poco si sposa con l'irruenza dello star system discografico.
Il successo dell'esordio "Dýrð I Dauðaþögn" è stato però talmente dirompente da convincere John Grant a varcare i confini linguistici per mettere mano ai testi della versione inglese del progetto, ribattezzato "In The Silence".
Alla fine la natura poetica di Ásgeir ha avuto la meglio: il cantautore islandese, accantonate le tentazioni elettroniche del successivo "Afterglow", ha recuperato la matrice folk delle proprie composizioni, con un album elegante e intimista.
La fine di una relazione e un lungo periodo trascorso in solitudine in una residenza estiva, in pieno inverno, hanno incoraggiato il versante lirico più romantico dell'autore, alle prese con il progetto forse più maturo ed equilibrato della carriera.
Sia ben chiaro che il profilo di Ásgeir non è quello sbandierato ai quattro venti: non è senza dubbio la risposta pop ai concittadini Sigur Rós, né la versione maschile di Bjork, ed è un bene.
"Bury The Moon" è un disco amabile, mai eccessivo, un resoconto emotivo e sincero di un musicista dotato che deve fare comunque i conti con il tono derivativo di molte soluzioni creative.
Il timbro vocale rassicurante e lievemente soul, alla Hozier ma senza le venature bluesy, tiene salda la tensione lirica di un album ricco di melodie dai tratti spesso epici ("Pictures"), a volte adornate di ritmi vellutati e avvolgenti ("Breathe"), gradevolmente più mossi ("Youth") e perfino commoventi (l'acustica "Eventide"). Per Ásgeir questo è il banco di prova delle sue reali capacità. Anche questa volta John Grant ha offerto il suo aiuto per le traduzioni in lingua inglese (la versione islandese s'intitola "Sátt"), dando prova di aver colto lo spirito delle canzoni dell'autore, sottolineandone il lirismo stratificato e malleabile nell'algida folktronica di "Lazy Giants" o l'ambientazione chamber-pop nella raffinata e incalzante "Rattled Snow".
Non è difficile immaginare le deliziose movenze trip-hop di "Turn Gold To Sand" incastrate ad arte in qualche serie Netflix, o le più vivaci trame di "Until Daybreak" a far da cornice a uno spot sulle grazie naturali dell'Islanda: un rischio forse calcolato dall'autore e che non rappresenta un vero e proprio limite, tutt'al più una peculiarità.
"In The Silence" è un passo avanti nella giusta direzione per Ásgeir, anche se mancano quel guizzo e quel colpo di genio che a questo punto possano far ascrivere il musicista islandese nell'olimpo del pop europeo; è evidente però che Ásgeir Trausti Einarsson abbia imparato a gestire i suoi limiti e le sue qualità, ritagliandosi un dignitoso ruolo di esotico pop-singer dallo sguardo agrodolce e finemente glaciale.
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