Algiers – There Is No Year (2020)

di Fabio Marco Ferragatta

Atlanta è stata, negli anni, epicentro di diverse rivoluzioni culturali riguardanti la black music. Oggi che la rivoluzione, per un motivo o per l’altro, non si può più fare agli Algiers tocca dibattersi nei bassifondi della musica, oggi che il mondo è così liquido da non mostrare più limiti precisi tra main e under. Parrebbe più semplice di 10 anni fa, ma così non è.

Il loro universo è in continua espansione, tanto veloce quanto più immobile è ciò che li (ci) circonda. È una capacità che non tutti possiedono e, cosa ancor più stupefacente, non tutti riescono a trattare di temi delicati, socialmente pesanti, ora che tutti possono parlare di tutto. Mette la testa fuori chi lo fa in maniera intelligente e non raffazzonata, spostandosi continuamente su una curva che va crescendo, di album in album.

“There Is No Year” è per Franklin James Fisher, Ryan Mahan, Lee Tesche e Matt Tong la terza tappa di un viaggio verso quella “expanse” di cui sopra, alla conquista dei freddi pianeti del libero pensiero, oggi tratto in catene in giro per il web. Per rendere il tutto più coerente, seppur in eterno cambiamento, la band torna a rimettersi nelle mani di Randall “Wolves In The Throne Room” Dunn e Ben “Uniform” Greenberg. Il bello di avere due maestri del suono heavy come questi in cabina di regia è che il risultato sono dischi contemporaneamente taglienti e morbidi, pesanti e soft, caldi e gelidi. È una tempesta, uno scontro sonico oltre la velocità della luce e pesantemente al di sotto di essa. È pensiero che diviene suono. Un suono gigantescamente minimale.

Dolenti spiritual come Wait For The Sound che si trascinano sotto piogge di fuoco che si abbattono sulle strade, con la voce del sempre più bravo e ispirato Franklin a straziare la scena, si accompagnano ad affondi wave di Repeating Night, e qui è la chitarra di Tesche a muoversi sontuosa e regale in appoggio a frasi che descrivono perfettamente l’ambiente (“this is the reaping of the cold wind / this is the sowing of the whirlwind”). Chaka è immensa, radiofonica, ammiccante, un sax la lacera nel ventre e la sezione ritmica pompa grassa nelle casse ed è incredibile come lo spettro di Brown si fonda con quello di Jackson su distese di suono cattivo. Cattivo come i synth che pestano i piedi al piano (tutto nelle mani di Mahan) sulla funerea Nothing Bloomed, un brano intenso che parla di abbandono, di addii silenziosi, di memorie lacerate, permeata da un gelo sintetico che si ingrossa sempre di più.

Tutto si muove fortissimo quando la batteria dell’ex-Bloc Party Tong che spiana Void ricorda fin troppo da vicino March Of The Pigs dei NIN, ed è subito orgia punk che fa tutto a pezzi, proprio come la title track, piazzata giustamente in apertura, che prende il soul e lo inchiavarda duramente ad uno spiazzante wall of sound industriale, veloce e privo di pietà, a battezzare un album che uscendo a gennaio è già in grado di non avere rivali.

Sarà davvero difficile trovare qualcuno che possa rivaleggiare con gli Algiers. Un’altra volta, mi viene da aggiungere. Che cannonata.

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