Penguin Cafe – Handfuls Of Night (2019)

di Marco Boscolo

In principio era la Parola, e la Parola era presso Simone Jeffes. Poi una malattia se l’è portato via, allora la Parola ha trovato ospitalità presso il figlio, Arthur. Era così che l’orchestra del “caffé pinguino” diventava semplicemente Penguin Café e licenziava il primo disco nella nuova incarnazione, un Imperfet Sea che ha convinto, ma senza riuscire a colmare davvero la scomparsa di Simon. Tutto sommato, però, meglio che una totale estinzione dei pinguini… Cosa che i pinguini, quelli veri che popolano l’Antartide e altri territori ghiacciati, rischiano davvero. Così, Greenpeace ci fa un documentario, e quale band migliore si poteva trovare per la storia dei pinguini che rischiano di scomparire dalla faccia della terra? Beh, non c’era quel gruppo strambo che aveva sempre di pinguini in copertina?

Nasce così il nucleo iniziale di questo secondo album completamente guidato e composto da Arthur Jeffes, accompagnato come di consueto da una formazione da camera, a cui si aggiungono alla bisogna sintetizzatori ed elettronica, a metà tra la composizione in senso classico (soprattutto della scuola minimalista americana, con Philip Glass come santino protettore) e ambient/soundtrack: la perfezione per un documentario sui pinguini! Scherzi a parte, la questione dei pinguini e l’Antartide è una roba seria in famiglia. La bisnonna di Arthur era sposata in prime nozze con Robert Falcon Scott, l’esploratore che nel 1911 tentò di raggiungere per primo a piedi il Polo Sud. Senza riuscirci, va detto, perché la sua spedizione risultò un massacro e a uscire vincitore fu invece la compagine avversaria, guidata da Roal Amudsen, che non solo arrivò al Polo Sud, ma riuscì anche a tornare a casa. Nel 2005 Arthur partecipò a una sedizione commemorativa, e da quella esperienza di silenzi, spazi desolatamente infiniti e freddo glaciale deriva l’ispirazione per questo nuovo album.

Racchiuso tra due “soli”, quello dell’inverno (le lunghe esili frasi dell’opener Winter Sun) e quello di mezzanotte (l’enigmatica e misterica Midnight Sun che chiude il programma), Handfuls of Night oscilla tra varie gradazioni di malinconia e di ombre allungate. Al centro, come spesso accade alla musica di Arthur, ci sono i grappoli di accordi e le cascate ripetitive di note al pianoforte che rendono subito riconoscibile il suono della “nuova” band. Rispetto alla gestione del padre, come già avevamo notato due anni fa, c’è meno ironia, meno surrealismo nella musica di Arthur, e più sentimenti agrodolci, più contemplazioni con il fiato sospeso e tempi lunghi. Ci si trovano meno invenzioni guizzanti e più esaustive esplorazioni di idee compositive ben congegniate, sotto forma di microvariazioni, cambi d’atmosfera, progressivi dispiegamenti. La cosa incredibile è che tutto ciò rimanga un percorso coerente tra personaggi così diversi e dopo tanti anni di musica.

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