Mark Lanegan – Somebody’s Knocking (2019)
Mark Lanegan ha 54 anni, è in pratica una leggenda vivente e anche se forse lui stesso non apprezzerebbe questa definizione di fatto lo è. Ovunque abbiate volto lo sguardo, dalla musica alt a quella tradizionale, lui era lì. Ovunque ci fosse da prestare una voce tanto riconoscibile ed immobile quanto intensa e caparbia o indebolita dagli eccessi, resa impervia come una montagna aguzza, lui era lì. Poco ha sbagliato, forse nulla, e se l’ha fatto è solo la nostra percezione di quel che ha fatto a non aver apprezzato qualcosa di suo.
A 54 anni cambiare non è nemmeno un’opzione considerabile, è qualcosa di già fatto, e nel caso di Lanegan molte più volte di quanto ci si aspetterebbe. Oggi fa quel che sa fare meglio, interpolando il suo amore per ciò che in tutti questi anni ha tenuto nel suo stereo e sui suoi dischi cambiando la prospettiva – generata più da noi ascoltatori che da lui in persona – di bluesman polveroso. Da “Blues Funeral” a “Gargoyle” ciò che più è stato chiaro è il suo amore per l’elettronica, e “Somebody’s Knocking” non solo non fa eccezione, ma finisce per strutturare il sé prima a quello attuale in un’unica soluzione di continuità. Cosa accadrebbe se fondessimo “BF” a “Bubblegum”?
Lanegan celebra il suo amore per i New Order scrivendo coi suoi collaboratori (Alain Johannes sempre presente) alcuni dei suoi pezzi migliori, che diverranno cartucce inevitabili nei seminali live della sua Band: Night Flight To Kabul ha una chitarra temprata nella plastica che danza attorno ad un synth fine fine e Mark ci pianta su un cantato scaltro, Penthouse High lampeggia eighties e ruffianona votata più ai pezzi pop di quelle estati lontane che all’altare di Sumner e Dark Disco Jag è un electro-spettro gelido uscito dalla Faktory con tanto di voce trattata fino all’incorporeità della macchina, come se una rockstar defunta si impossessasse del microfono.
Quello che non ci si aspetta è il ritorno alla furia r’n’r, più garage e stoner che mai, e da queste parti aleggia la cazzuta Disbelief Suspension con Lanegan lanciato su una macchina rugginosa (“You wanna ride…you wanna take a ride”), infingardo vecchio rocker dei bei QOTSA che furono, il pesante crescendo furente della scarna Radio Silence, prima sexy e poi rissa, o le batterie grasse della malinconia epica di Gazing From The Shore a ruzzolare nel cortile delle chitarre. Come si suona l’indie rock con le palle? Stitch It Up e Letter Never Sent la risposta, quest’ultima con un riffone blues e gli “ooh ooh” spooky che tanto ci piacciono. Ma il meglio l’ex-Screaming Trees se lo tiene in tasca fino alla fine, a quel punto la ballad che pare uscita dagli anni dei Gutter Twins con Dulli, Two Bells Ringing At Once, delicata e notturna, una dama oscura che si infila tra le coltri a carezzare via le lacrime e qui la parte elettronica fa il lavoro scuro di portare su i giri fino al blackout totale. Non manca proprio nulla all’appello.
54 anni, dicevamo, sentirli tutti ed utilizzarli per fare il culo a chiunque. Game, set, match, un’altra volta ancora.
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