Bon Iver – I, I (2019)

di Cristiano Gruppi

C’era una volta un cantautore talentuoso che, in quasi totale solitudine, si era chiuso con il cuore spezzato in una casetta nel Wisconsin. Ne uscì con uno dei migliori album degli interi anni ’00: ‘For Emma, Forever Ago‘ era intimo, sincero, emozionante. La produzione, di cui Justin Vernon si era occupato in completa autonomia, era essenziale ma non scarna, perfetta per trasmettere quelle sensazioni di sofferenza e isolamento che lo avevano portato a scrivere delle canzoni così belle. Ci volle un po’ di tempo perché il mondo se ne potesse accorgere, ma già a metà 2008 il moniker Bon Iver era sulla bocca, sulle penne e sulle tastiere di tutti. Un milione di copie vendute nei soli Stati Uniti, copertine di magazine come se piovesse, l’interessamento di Kanye West, che volle Vernon in studio con lui per registrare un paio di brani.

Da quel momento, il Justin che si era auto-confinato nella cabina di caccia di suo padre non è più esistito. I Bon Iver sono diventati una band sempre più numerosa, le tecniche di registrazione dell’universo hip-hop molto vicino al mainstream lo hanno conquistato, il folk scarno degli esordi è diventato piano piano un qualcosa a cavallo tra soft-rock e soul iper-prodotto. Se ‘Bon Iver, Bon Iver‘ (2011), pur non essendo minimamente paragonabile al predecessore, conteneva ancora una manciata di grandi pezzi, con ‘22, A Million‘ (2016) il progetto Bon Iver ha definitivamente preso una strada artisticamente chiara soltanto al suo autore.

Come il lavoro precedente, anche ‘I,I‘ pare un ridondante esercizio di stile, in cui l’idea produttiva prende il totale sopravvento sulla scrittura. A questo giro il personale tecnico è composto da ben 21 persone, i musicisti coinvolti sono addirittura 40. I loro contributi sono ridotti a piccoli sketch cuciti uno accanto all’altro per creare una sorta di tappeto sonoro a ogni singolo brano. Il cantato del musicista americano è costantemente in primo piano, ma come slegato da quelle che sono delle vere e proprie basi, sebbene costituite di parti analogiche. E’ certamente qualcosa di molto peculiare e anche inedito. Il problema è che non rende, quantomeno non utilizzando questa formula in una tale abbondanza.

I problemi di ‘I,I‘ sono principalmente due: la ridondanza eccessiva, con le strutture vocali delle 13 tracce in scaletta che si somigliano tutte molto, e l’assenza di brani di alto livello, comunicativi, indimenticabili come è ancora oggi ‘Skinny Love‘. La scelta di stratificare questa di moltitudine di samples analogici impedisce alle canzoni di spiccare il volo, e all’ascoltatore di cogliere la loro essenza. Appena si ha la sensazione di essere coinvolti, subentra immediata un’interruzione, una rottura, un repentino cambio di scenario che riporta la tensione pressoché a zero. Tre le eccezioni, tre pezzi dove Vernon si lascia moderatamente andare, perlomeno per più di 20 secondi, senza inutili intermezzi: ‘Hey, Ma‘, ‘Naeem‘ e ‘Faith‘, le uniche tracce che ci si ritrova a canticchiare dopo ripetuti ascolti. Il resto del disco paga, probabilmente, anche la scelta di aderire a un genere musicale non estremamente eclettico come il soul, così che le melodie si fanno piuttosto prevedibili.

Insomma, come accaduto tre anni fa Vernon sembra non riuscire a dare consistenza alle molteplici idee musicali che affiorano nella sua mente, apparentemente più preoccupato di un’estetica fine a se stessa. Dovrebbe rientrarci, Justin, in quella cabina. Da solo, senza Kanye, senza James Blake, senza neanche i fratelli Dessner. Perché se si vanno a pesare le sue uscite più recenti, inclusi Volcano Choir e Big Red Machine, di quel cantautore baciato da un talento superiore è rimasto soltanto l’hype, tanto da far affiorare il dubbio che si fosse trattato di un one album wonder.

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