Mavis Staples – We Get By (2019)

di Lejla Cassia

Nel tentativo di individuare cosa renda così forte l’immagine di Mavis Staples si corre il rischio di vincere le Olimpiadi dell’ovvio. Una voce straordinaria, una risata sorniona e contagiosa, il soul, il blues, il gospel e l’r’n’b, l’impegno sociale, profondamente radicato nell’American Civil Rights Movement, un intuito spiccato nel ricercare o accettare le collaborazioni che le vengono proposte o forse, alla fine di tutto, la sua potenza in qualità di trasmettitore di un messaggio ancora troppo urgente.

In We Get By, dodicesimo album dell’artista di Chicago e primo in collaborazione con Ben Harper, la credibilità della comunicazione si regge più sulla magnificenza della Staples che sulla co-produzione/scrittura di Harper che, per astuzia o per ansia da prestazione, consegna alla Staples e alla sua band una manciata di demo scheletriche, sufficienti a tirare su un disco e su cui costruire ciò che gli riesce meglio. “We Get By”, è un patto di sangue tra Mavis Staples e Ben Harper, scandito in undici episodi di blues, soul e funk magnificamente lineari e autentici che confermano l’ingombrante presenza della Staples, l’impeccabile resa dei suoi musicisti (Rick Holmstrom alla chitarra, Jeff Turmes al basso, Stephen Hodges alla batteria, Donny Gerrard e C. C. White
Laura Mace alle voci) e le ottime intuizioni di Harper.

A voler trovare un concetto chiave, il cambiamento è una costante del disco: partendo dal blues elettrico della opener Changeper arrivare al soul di One More Change, passando per We Get By, Brothers And Sisters e Sometimes, il concetto di trasformazione sembra risuonare con la stessa impellenza di chi si rende conto che non resta più molto tempo per incitare a un’inversione di tendenza. Nessun impeto di rabbia o di rimprovero, ma un’anima scarna e sensuale come mai fino a ora insieme a una coralità che esprime preghiere, inviti, promesse, qualcuna da codificare (“X is the letter / Blue is the color / One is the number / Now is the time / Can we change around here”, da Change), altre estremamente chiare (“It was all at once / I missed everything I’d ever lost / Started over many times / Now I’m, I’m paying the cost”, da Never Needed Anyone), per ribadire ancora una volta che le libertà civili non sono né un gioco né una moda, ma diritti universalmente riconosciuti.

In questo senso Harper non si discosta più di tanto dalle tematiche di “If All I Was Was Black” del 2017, ma non avrebbe senso chiedersi se si tratti di una comfort zone compositiva, dovuta all’ingombrante presenza della Staples, in cui Harper ha preferito ripararsi o alla rilevanza di alcuni semplici concetti che, nell’era in cui Siri e Alexa ci sembrano già superati dovremmo aver abbondantemente compreso.

A corredo di quanto veicolato con le undici tracce, l’artwork dell’album contiene una foto dell’artista statunitense Gordon Parks, “Outside Looking In”, inserita nella collezione del 1956 “The Restraints: Open and Hidden”: attraverso un recinto, un gruppo di sei bambini afroamericani guardano un parco giochi in cui non gli è consentito l’accesso. “Ho quasi 80 anni. Ma non sono pronta per andare in pensione. Questo è ciò che Dio vuole che io faccia. La mia voce è più forte che mai”. Grazie al cielo, aggiungiamo. Che Dio ti protegga, Mavis.

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