Bruce Springsteen – Western Stars (2019)

di Blackswan

Non è facile recensire un disco di Springsteen, quando si è fan: se sei oggettivo fai torto a te stesso, se non lo sei, fai torto a chi legge. E poi, è un dato di fatto, il Boss è un artista divisivo: per alcuni è una fede, per altri un vecchio bollito che non fa un disco decente da… (ogni detrattore ha il suo anno preferito per indicare l’inizio del declino). Western Stars, tra l’altro, possiede un surplus di difficoltà, perché un disco “diverso”, anomalo, punteggiato da arrangiamenti rigogliosi (ridondanti e leziosi, dirà qualcuno), che lo rendono un unicum nella discografia di Springsteen, tanto che, consentitemi la boutade dadaista, potrà piacere a chi non ha mai amato il Boss e magari dispiacere anche ai più ferventi credenti. C’è un solo modo, quindi, per raccontarlo, che è quello di partire dall’unica distinzione che, a prescindere dai legittimi gusti personali, conta davvero, e cioè quello fra musica bella o brutta. Così, a meno che non siate sordi, prevenuti o in malafede, basta un solo ascolto dell’album per rendersi conto che è incredibilmente bello.
Un disco diverso, su questo non ci piove, figlio del mood confessionale di On Broadway, quello spettacolo che nel 2018 ha presentato al mondo lo Springsteen più intimo. Una sorta di zibaldone esistenziale, un momento di raccoglimento in cui il Boss si raccontava con il cuore in mano, facendo il bilancio della propria vita, denudando la rockstar perché fosse chiaro a tutti che, dietro lo star system, l’icona, il personaggio di successo, c’era (e c’è) un uomo, con le sue gioie, i suoi dolori, le sue imperfezioni.
Western Stars riprende il filo di quello spettacolo: è un disco in cui Springsteen torna a raccontarsi attraverso il filtro, però, di storie inventate e di quei personaggi, sconfitti, derelitti, malinconici, eppure mai domi, che da sempre hanno punteggiato la sua poetica. On Broadway era una biografia, né più né meno, me stesso per me stesso, in cerca di una catarsi. In Western Stars, invece, Springsteen dimostra di essere una delle voci narranti più credibili dell’America, di oggi e di ieri. Alla soglia dei settantant’anni, torna a riflettere sul tempo trascorso e su quello che resta. E lo fa con un disco nostalgico, struggente, intimista, senza che però la malinconia forzi la mano alla scrittura. Lo sguardo è lucido, sereno, rilassato. È lo sguardo di chi sa di aver tenuto dritta la barra, di aver sempre cercato di dare il meglio di sé, di chi si avvicina al termine della propria vita senza dover fare i conti con rimpianti e rimorsi.
Una narrazione personale, però, che il grande romanziere rende universale. E non c’era altro modo di farlo se non cambiando stile, ammantando una musica scarna (perché l’anima di queste canzoni è essenziale) di arrangiamenti floridi, lussureggianti, vigorosi. È forse questa la chiave per comprendere Western Stars: quegli archi, così dominanti e insistiti, servono a dare ampiezza al linguaggio, sono funzionali a rendere l’intimità delle storie narrate patrimonio di tutti. Quegli archi sono il respiro dell’America, sono l’epos che attraversa il romanzo, sono gli spazi aperti, le distanze e gli orizzonti, sono il cavallo in copertina, ancora libero, vivo e scalciante, consapevole che quella grande prateria, che rappresenta la vita, è una corsa a perdifiato verso il futuro.
Ci sono grandi canzoni in Western Stars, alcune tra le migliori mai scritte da Springsteen; e c’è una visione d’insieme, una cifra stilistica coerente e un linguaggio che, piaccia o meno, solo i grandi possiedono (possiamo fare un applauso al co-produttore Ron Aniello, per favore?).
Un disco “diverso”, dicevamo, perché in Western Stars il rock non c’è, fatevene una ragione. Ci sono le radici, il suono dell’America e dei suoi strumenti tradizionali, che sono il DNA del Boss; ma c’è anche il piacere di scrivere piccole gemme radiofoniche, il gusto per la suggestione e il languore, la forma che si sovrappone e assimila la sostanza, lo sguardo cinematico che si sostituisce all’impeto e al sudore della rockstar.
Sarebbe impervio, per motivi di spazio, affrontare canzone per canzone, e tutte meriterebbero, perché qui non ci sono filler, e l’intensità del livello di scrittura è costante, a differenza delle ultime prove che facevano intravvedere una certa stanchezza d’ispirazione.
Hitch Hikin’, posta in apertura, è la chiave per aprire lo scrigno di questo nuovo Springsteen: è l’intimo che diventa spazio, un cuore errabondo che non si arrende al peso della vita, il suono americano che trova nuova luce negli arrangiamenti. Gli stessi che fanno scintillare di bellezza The Wayfarer, processo alchemico con cui il boss si trasforma in un Burt Bacharach del futuro. C’è, poi, Tucson Train, l’epopea della frontiera riletta attraverso il cinemascope dei film western anni ’50, ci sono il divertissement di Sleepy Joe’s Cafè o il sole al tramonto di Sundown, sguardo illanguidito e melodia acchiappatutto, c’è l’umanità traboccante della title track e quella steel guitar spettrale su cui si posa la polvere dei ricordi, c’è l’immensa Moonlight Motel, con le lacrime che bagnano le corde della chitarra, c’è There Goes My Miracle, sbeffeggiata da molti prima dell’uscita del disco, e che invece è la canzone pop più bella ascoltata quest’anno. E c’è Chasin’ Wild Horses, uno Springsteen millesimato che gonfierà il cuore ai nostalgici di The River.
Su tutto, però, c’è il Boss, un’artista che ci tiene compagnia da quasi mezzo secolo e che, come ogni uomo, ha avuto i suoi giorni di gloria e le sue cadute, le sue canzoni belle e quelle che ci hanno fatto dubitare. Un uomo che, però, è sempre stato coerente a se stesso, anche quando, come in Western Stars, ha deciso di raccontarsi con un nuovo linguaggio. Fan o no, questo glielo dovete. Anche perché ci ha regalato uno dei dischi più belli del 2019.
Love you, blood brother.

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