Little Steven & The Disciples Of Soul – Summer Of Sorcery (2019)

di Massimo Orsi

La E-Street Band si è presa una lunga pausa e Bruce, ormai lo sanno anche le pietre, è in procinto di pubblicare il nuovo disco solista il prossimo 14 Giugno, inoltre Nils Lofgren ha appena dato alle stampe il nuovo “Blue With Lou” ma c’è in pista anche il nuovo di Little Steven.
Dopo “Soulfire” di due anni orsono che veniva pubblicato a ben diciotto anni di distanza dal precedente “Born again savage” (datato 1999) al quale era seguito il world tour ed il conseguente disco live triplo estratto, ci troviamo tra le mani questo nuovo di Little Steven, uno che non ha più nulla da dimostrare a nessuno ma prova ancora un forte sentimento nel lavoro che fa ed è uno dei pochi rimasti a riproporre l’Asbury Sound, quel genere che mi procura ancora oggi a distanza di quasi quarant’anni dalla prima volta che lo ascoltai dei grandi brividi di piacere.
Steven Van Zandt è un grande cultore della musica, un appassionato, un ascoltatore attento sia alle nuove leve che al rock del passato associato al soul, al garage e tutto il resto, con particolare attenzione a quella nata nel decennio sixties, doo wop ed R&B compresi, tutto quanto ascoltato nel disco precedente, e questo “Summer of Sorcery” non è altro che la degna continuazione anche se il nostro Stefano Lento si spinge sino al periodo delle estati della sua giovinezza (da qui si ispira il titolo dell’album) quando le canzoni erano una cosa importante, un’ emozione unica, che ti facevano sentire in cima al mondo.
Ritroviamo quindi un disco di grondante e godibile R&B e soul meticcio che si sposa egregiamente con il rock e la musica latina contaminata da un meltin’ pot di percussioni, cori e fiati che ti contagiano e ti trasportano direttamente ad un’estate qualsiasi del passato trascorsa nel Jersey Shore.
Registrato nei Renegade Studios di New York di sua proprietà, Steve co-produce con Marc Ribler, chitarrista dei Disciples of Soul, completano la formazione il tastierista Lowell “Banana” Levinger, il bassista Jack Daley, il batterista Joe Mercurio, il percussionista Anthony Almonte, il tastierista Andy Burton (Hammond e piano) e l’ottima sezione fiati che comprende tra gli altri l’ormai famoso Eddie Manion più tre coriste ben disposte ad arricchire ulteriormente il corposo sound. Il tutto è stato mixato e masterizzato da Bob Clearmountain e Bob Ludwig, nomi ormai noti che gravitano attorno al circuito musicale di Springsteen da decenni.
“Communion” è il brano d’apertura: rullo di tamburi, un organo poi il brano parte con un sound r’n’b roboante di fiati e cori femminili, il ritmo rallenta ed accelera sino all’ingresso di hand clap e cori doo woop: è una chiara dichiarazione che la festa ha inizio. Infatti il brano successivo ce lo comunica ufficialmente, quasi non avessimo capito le sue reali intenzioni “Party Mambo!” ci porta nel quartiere latino di New York con una versione mambo degna di Tito Puente. La successiva “Love Again” è un ottimo rock’n’soul che rimanda all’amico Southside Johnny Lyon, molto bella, orecchiabile e romantica.
“Vortex” cambia le carte in tavola e si apre con le sirene della polizia, poi percussioni, basso e chitarra sugli scudi, cori femminili, archi ed un flauto completano l’ atmosfera funkeggiante e notturna in pieno clima da ghetto newyorkese. “A World of Our Own” ha un sound già sentito, utilizzato da Steve in passato, ma è impossibile non apprezzare il brano romantico grondante di fiati su un portentoso wall of sound di Spector ed anche in questo caso sembra di ascoltare un brano di Southside Johnny (anche se bisogna ricordare che spesso il leone del Jersey canta canzoni scritte ed arrangiate proprio da Little Steven) in quanto è ormai l’unico a promuovere ancora e sistematicamente l’Asbury Sound degli esordi. “Gravity” sposta leggermente l’asse sul soul bagnato da funky e jazz latino, complici una tromba fantastica e poi organo, archi e le harmony vocals che sembra arrivino direttamente dal brano Sun City.
“Soul Power Twist” è una delle vette del disco, un soul twist (Willy DeVille docet) d’altri tempi, cantato con in mente il grande Sam Cooke e coi fiati a profusione: è uno spettacolo, come tutto il resto dell’album.
“Superfly Terraplane” è rock allo stato puro, con le chitarre in tiro, cori alle spalle e fiati che richiamano a gran voce il rock’n’roll di Detroit di Mitch Ryder ma cantato come nel medley di Bruce, roba da far venire la tachicardia.
“Education” si apre con un sitar poi il sound si sposta subito verso un rock latino che almeno inizialmente sembra occhieggiare alla famosa “Bitter Fruit” poi la melodia diventa sinuosa e Steven gioca al “call and response” col coro
per un brano francamente un poco sottotono, ma possiamo concederglielo, dato che finora non ha sbagliato una virgola.
“Suddenly You” è un brano inusuale per il nostro, parte con leggere percussioni, è molto piacevole, dolce e notturno con una tromba che ogni tanto interviene a spezzare il romantico tappeto sonoro.
Non poteva mancare l’omaggio al blues con la successiva “I Visit The Blues” , (ricordo che Miami Steve è presente in qualità di ospite nel recentissimo disco di John Mayall) un brano Chicago style molto ben suonato.
Il brano “Summer of Sorcery” chiude in maniera superba un disco veramente godibile, piacevole, pieno di energia, di voglia di divertirsi e divertire, ma questa canzone finale in realtà è una ballata rock romantica che supera gli otto minuti ed emoziona per i tempi andati ma più ancora per l’assolo di sax presente, forse un omaggio all’amico Clarence che non c’è più, ma il suo ricordo è più vivo che mai. Bellissima, non mi vergogno a dire che mi sono scese le lacrime durante l’ ascolto. Cosa si può chiedere di più ad un disco se non emozionarci, ma di questi tempi è sempre più raro. Mille grazie, Steve e fai buon viaggio nel tuo nuovo World Tour.


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