Son Volt – Union (2019)
Lo stato dell’Unione secondo Jay Farrar, anno di grazia 2019. Dopo il nostalgico riposo nella tradizione country di Hony Tonk, uno dei lavori più fiacchi della loro carriera, e le Notes of Blue di vaga ispirazione "mississippiana", la voce per eccellenza del rock provinciale americano torna alla fonte che ha animato la sua scrittura fin dagli anni giovanili, a quell’anima folk ribelle e proletaria che covava sotto le ceneri negli Uncle Tupelo, e che nel corso delle stagioni è sempre riaffiorata nelle pubblicazioni a nome Son Volt. Facile riannodare i fili di Union, per esempio, con la fierezza di un album sottovalutato come Okemah and the Melody of Riot (2005), perché dietro si allunga ancora l’ombra imponente di Woody Guthrie, guida spirituale di molte delle nuove composizioni, faro per illumunare la lunga traversata di un’America dissociata, divisa e in tumulto, assediata da fantasmi che non se ne sono mai andati dalla scena.
Inciso in parte, con l’ausilio di uno studio mobile, presso il Woody Guthrie Center di Tulsa, Oklahoma e al Mother Jones Museum di Mount Olive, Illinois (Mary Harris “Mother Jones” fu una storica attivista del sindacato e fondatrice degli Industrial Workers of the World), Union elegge luoghi emblematici per trarne una sorta di spinta rigeneratrice per la band stessa (Mark Spencer e Andrew DuPlantis le conferme, il chitarrista Chris Frame l’ultimo arrivato, sebbene si tratti di un ritorno), là dove Farrar e compagni tentano di immergersi nel grande fiume della tradizione alla ricerca di qualche risposta da contrapporre all’odio e alla confusione di questi giorni. La commovente chiusura con The Symbol, ballata dal tepore acustico e quintessenza del sound alt-country di casa, è una derivazione diretta di questa cura: il modello è, per stessa ammissione di Jay Farrar, Plane Wreck at Los Gatos di Guthrie, mentre il racconto in musica narra la vicenda di un immigrato messicano che ha contribuito alla ricostruzione di New Orleans dopo l’uragano Katrina, e adesso si vede braccato e respinto dal nuovo ordine americano.
È soltanto il sigillo finale apposto a un disco dalle tonalità bluastre e politiche, nel senso più nobile e fiero del termine: la tenace corazza blues di Broadsides e il suo diretto richiamo all’esperienza dell’omonima rivista, megafono del movimento folk del Village nei 60s; il clamore della protesta e l’impotenza che monta nell’animo di The 99, speculare faccia rock dell’iniziale While Rome Burns, più dolce nel portamento e classica lezione figlia di quell’annuncio roots giunto anni fa dal profondo Midwest, qui ribadito anche da Reality Winner, che fin nel titolo fa riferimento esplicito all’omonima figura dell’Intelligence americana, accusata e poi condannata per avere sottratto dei report secretati sull’influenza russa durante le elezioni presidenziali del 2016. Tra una scarna title track, che avanza austera nella sua trama folk blues, instillata dal pensiero del padre James Paul ‘Pops’ Farrar, e stralci di canzone che sembrano legare insieme personale e sociale (Devil May Care, accogliente al primo istante, The Reason, Slow Burn), Union non stravolge affatto la sceneggiatura dei Son Volt, né tanto meno il racconto musicale sin qui riconoscibilissimo, eppure nella chiarezza degli intenti, nel coraggio delle parole rivela una seconda giovinezza per la band.
Emergono passaggi di autentica brillantezza alternative country, gli stessi che sembrano rimandare ai tempi di Trace e Straightaways, quando i Son Volt erano la punta di diamante di una “rivoluzione” silenziosa, rock delle radici dall’immensa distesa americana. Oggi Jay Farrar ha superato i cinquant’anni, si è indurito pelle e anima, ma ha saputo tenere insieme il gruppo, gli ha fornito ancora un senso e soprattutto non ha perso quella malinconia aspra e ribelle che scaturisce dalla sua voce, quando si chiede con un tono di angoscia “Lady Liberty, are you still here?”.
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