Jeremy Tuplin - Pink Mirror (2019)

di Gianfranco Marmoro

Che Jeremy Tuplin desiderasse oltrepassare i confini del folk era già palese nel fantasioso esordio “I Dreamt I Was An Astronaut”, un atipico progetto cantautorale definito abilmente dallo stesso autore come space-folk, un album insolente e ricco di immaginazione e personalità. Il nuovo album “Pink Mirror”, oltre al cambio di scuderia dalla Folkwit alla Trapped Animal, testimonia un’evoluzione creativa ragguardevole, supportata anche da una più accurata e definita produzione.

A una scrittura solida e poetica che è figlia sia di Leonard Cohen che di Nick Drake, il musicista londinese accosta la forza visionaria del primo David Bowie e l’humour dark dei Tindersticks, senza altresì trascurare la versatilità del rock’n’roll, con frutti tanto intelligenti quanto intriganti. Il tono impassibile e greve della voce e il mood agrodolce delle ballate chamber-folk di “Pink Mirror” creano un effetto quasi surreale, proiettando la musica in una dimensione temporale aliena.
Tuplin alterna folk sbilenchi ricchi di suoni e cori doo-wop (“Bad Lover”) a corposi pop’n’roll (“The Machine”), tra riff chitarristici ricchi di arpeggi e geometrie folk-psych, che hanno molto in comune sia con i Television che con i Jazz Butcher.

Sono le piccole imperfezioni il condimento preferito dal compositore inglese, sempre pronto a sbriciolare la poesia di gran parte delle canzoni, con testi ora cinici, ora sarcastici, ma sempre ricchi di compassione e disincanto.
Le atmosfere cupe e delicate di “Can We Be Strangers“ hanno un qualcosa di onirico e sfuggente, ben diverso dal brioso jangle-pop-folk di “Just Cos Ur Handsome” (che evoca i Weather Prophets) o dall’apparentemente giocoso ritornello di "Love's Penitentiary", una splendida ballata sorretta da intrecci chitarristici cristallini e da una deliziosa batteria elettronica.

E’ evidente che nel mondo di Jeremy Tuplin non v’è nulla che possa essere dato per scontato: la svogliatezza da black humour di “Frankenstein” e i toni aspri e ruvidi che prendono possesso del cantilenante folk di “Pandora's Box” sono il segnale di una vulnerabilità stilistica che disorienta.
Con un assetto strumentale essenziale e nitido, Tuplin mette insieme dodici gioiellini alt-pop, delle perfette miniature musicalmente complesse eppure minimali. A brani chamber-folk che non sfigurerebbero in un album dei Tindersticks (“Gaia”), o dei Divine Comedy (“Break Up”), il musicista alterna ballate vellutate e granitiche, il cui crescendo emotivo raggiunge l’intensità di Bill Callahan (“Humans”) e l’introspettiva psichedelia di Tim Buckley (“The Beast”).

Con tanta carne al fuoco, il rischio per Jeremy Tuplin era quello di non riuscire a gestire una tale complessità di spunti creativi, ma grazie a un leggero disincanto e un abile dosaggio di melodie e dissonanze, “Pink Mirror” si candida come una delle proposte più ingegnose e riuscite di questi ultimi mesi.

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