Damien Jurado – In The Shape Of A Storm (2019)

di Stefano Capolongo

A gennaio il giornalista statunitense Jason P. Woodbury, durante una chiacchierata a Phoenix, poneva a Damien Jurado una domanda riguardante l’approccio alla scrittura delle proprie canzoni. Una domanda apertissima, forse scontata, ma necessaria ogni qual volta si voglia penetrare nelle pieghe dell’anima di un’artista. La risposta, in linea con la personalità in questione, gettava luce sull’ispirazione alla base del nuovo album: «You ever see that movie Ghost? Whoopi Goldberg’s character, Oda Mae Brown—that’s who I am. These spirits are showing up at her door, jumping into her body. That’s how I feel. I don’t know what’s coming out of me…I just show up and deliver it». Riferimenti cinematografici, spiritismo, presenze e fantasmi che provano a creare intersezioni nitide e porose all’interno dell’inarrestabile asse del tempo: il solito indifeso e metafisico Jurado, si direbbe.

Vero, ma c’è dell’altro. Perché qui l’artista di Seattle è ridotto all’essenziale, una semplice silhouette rispetto a quanto visto in precedenza. Se quindi In the shape of a storm, lavoro in studio numero quattoridici, può collocarsi molto vicino al recente capolavoro The horizon just laughed sul piano tematico, lo stesso non si può dire per il versante strettamente musicale. Niente più strumentazioni vintage ma la semplicità di chitarra e voce ad ad accompagnare le dieci tracce, un’atmosfera che si fa liturgica e ritorna spesso e in più parti (ma senza l’emblematico lo-fi) addirittura a Ghost of David (Silver ball, Newspaper gown o Lincoln, brano scritto infatti prima del 2000). Il filo che collega The horizon a In the shape è quello dell’eterna lettera d’addio, il continuo farewell doloroso ma necessario, perché la macchina della vita non si inceppi: se prima il commiato era nei confronti di Seattle, adesso è quello, forse più intenso, per l’amico e producer scomparso Richard Swift. Questa sensazione, tra l’ineluttabile e l’irripetibile, permea ogni momento dell’album: «When the signal broke, I spoke to you on paper. From the parking lots to our bed where you are not now» (Hands on the table), «How long must I wake without you and go this life alone?» (Anchor), «If I go sailing into the unknown, what are my chances of ever reaching your shore?» (The shape of a storm). South è il fermo immagine più intenso in questo senso: le figure di Damien e Tom sono incastonate in un momento passato ben preciso ma sembrano tangibili, e la loro visione, le loro azioni, si dilatano come in uno spazio vuoto. Ma anche qui arriva una separazione, un addio «You take New York and I will marry Lee, let’s see who comes back worse», dove è un semplice fischio d’uscita ad accompagnare l’immensità dell’ignoto.

A questo punto risulta incredibilmente gustoso scoprire che le dieci tracce fanno tutte parte di un corpus di pezzi già esistenti ma mai finiti in nessun album, e come tutto ciò non crei confusione né imbarazzo. Il risultato è piuttosto un coerente equilibrio che intercetta lo Zeitgeist e crea echi, risonanze inarrestabili come maree. Jurado, dopo una carriera lunga quasi vent’anni, è ormai molto più che un musicista: è un elaboratore del profondo, un disegnatore dei propri stati d’animo, un’interprete di sentimenti, un’artista totale e forse, proprio come il personaggio di Whoopi Goldberg, una figura di mezzo tra il visibile e l’invisibile.

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