William Tyler – Goes West (2019)
Lo chiamavano primitivismo, in questo caso parliamo di una rivisitazione e di uno studio nell’uso della chitarra che ha un valore storico e cerebrale che merita di essere considerato per il suo spessore anche intellettuale, oltre che puramente artistico e per la bellezza delle canzoni contenute in quest’album.
William Tyler è un nome forse poco popolare, ma non è un novellino. Al contrario. Multistrumentista, ma principalmente chitarrista, ha suonato con i Lambchop e i Silver Jews prima di dedicarsi a una carriera solista in cui peraltro non mancano collaborazioni, tra cui è impossibile non menzionare la partnership con Bonnie “Prince” Billy, che è probabilmente uno degli autori più riconosciuti nel panorama folk americano degli ultimi vent’anni (ma va detto che Tyler è musicista poliedrico, non a caso è attualmente in tour con Ty Segall). Ma, nel caso specifico, pur collegandosi alla premessa di questa breve recensione e a quello che abbiamo definito come primitivismo o approccio di tipo “cerebrale” allo strumento, vale la pena menzionare il tandem fortunato con Ben Chasny (Six Organs Of Admittance), culminato nella realizzazione di un album, “Parallelogram”, pubblicato nel 2015.
I contenuti di Goes West (disco che esce su Merge, label storicamente legata al circolo Lambchop e ad artisti come Superchunk o Archers Of Loaf), diciamolo, sono sicuramente meno sperimentali dell’episodio sopra menzionato. Messa in piedi una vera e propria band con Bradley Cook, Meg Duffy, Griffin Goldsmith (Dawes) e James Anthony Wallace, William si è spostato dal Tennessee verso la California, alla ricerca di una nuova dimensione intellettuale e un clima anche politico e sociale differente, cacciando fuori un disco di composizioni completamente costruite su chitarra acustica.
Di base modellato sulla tecnica del fingerpicking, l’album è praticamente solo strumentale, ma piuttosto che mirare a un’avanguardia più difficile, letteralmente dipinge in dieci canzoni quelli che sono acquarelli deliziosi che ad ogni ascolto, prestandovi attenzione, regalano nuove sfumature e punti di vista per quelle che sono le singole note: accenti che non sono mai casuali e sempre puntuali, che pure traendo ispirazioni da esperienze apparentemente lontane, la chitarra folk, la tradizione americana, il fingerpicking, il primitivismo, magari le sfumature di suono degli Appalachi, persino la chitarra jazz, ci danno l’idea di uno stile preciso e riconoscibile.
C’è una identità univoca nelle canzoni dell’album, un lavoro luminoso che dà l’idea di un’artista riflessivo che sa prendersi i suoi tempi, anche nella scelta di quelli delle sue canzoni. Impreziosito da una collaborazione più che eccellente, cioè addirittura quella di Bill Frisell, “Goes West” è un disco che ha una sua epica anche vintage, ma efficace. Piace, eccome, vale la pena di ascoltarlo e riascoltarlo più volte.
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