John Mellencamp – Other People’s Stuff (2018)

di Fabio Cerbone 

John Mellencamp alle prese con il canone americano, questo potrebbe essere il sunto di Other People's Stuff. Il canone è quello delle radici folk e blues, l'anima della tradizione che soffia da sempre sulle stesse ballate di John e su un percorso artistico che, soprattutto in anni recenti, si è fatto più convintamente fedele a quello che Mellencamp stesso chiama "The Great American Songbook", un filo rosso che da Woody Guthrie e passando per Dylan e Springsteen arriva a bussare alla sua porta. Peccato però che non si tratti affatto di una novità discografica, semmai di una provvisoria, superflua raccolta di cover che pesca fra materiale già edito (e ben noto ai suoi estimatori), rarità sparse (ma non indispensabili) negli anni, fra tributi e documentari, e una sola vera registrazione inedita, la riproposizione di quella Eyes on the Prize che fece bella mostra nel 2010 alla Casa Bianca, durante le celebrazioni per il movimento dei Diritti Civili.

La scelta non pare certamente casuale, perché da che parte si posizioni l'afflato popolare e democratico di Mellencamp in tempi di amministrazioni "trumpiane" è abbastanza chiaro a tutti, ma è pur vero che Other People's Stuff, aldilà del mero collezionismo e dell'opportunità di vedere raggruppate in un solo album alcune, nemmeno tutte, sue interpretazioni del "repertorio altrui", è un'occasione sprecata, anche un po' inutile (forse da fine contratto?) e più di tutto un prendersi il tempo dovuto in attesa di nuovi dispacci originali. Si apre sulle note incalzanti di To the River, brano scritto insieme a Janis Ian e che chiudeva la scaletta di Human Wheels (era il 1993, annata buona per John) e si conclude con il calore soul rock di I Don't Know Why I Love You (Stevie Wonder) un disco che potrà attirare nella sua rete il fan completista o forse incuriosire chi si era distratto sulle uscite passate di Mellencamp: infatti, c'erano già stati nel 2003 Trouble No More, quello davvero un interessante affresco di cover a tema roots e nel tempo un piccolo cruciale snodo nella carriera del rocker dell'Indiana, così come il trascurato Rough Harvest, sorta di unplugged mascherato e album di fine contratto che riverniciava materiale sparso.

Da lì arrivano Teardrops Will Fall, il vibrante blues rurale di Stones in My Passway e il gesto gospel di In My Time of Dying, qui mescolate e probabilmente remixate per una migliore amalgama sonora con stralci che provengono dal tributo a Jimmie Rodgers del 1997 (Gambling Bar Room Blues), da un documentario (intitolato From the Ashes) trasmesso dal canale televisivo del National Geographic (la Dark As A Dungeon di Merle Travis resa famosa anche nell'intepretazione di Johnny Cash), fino al più recente Sad Clowns & Hillbillies del 2017 (Mobile Blue, canzone del dimenticato Mickey Newbury). Che siano tutti episodi fatti propri e dominati letteralmente da Mellencamp e dalla band non vi è alcun dubbio, perché l'impronta inconfondibile è quella che da The Lonesome Jubilee in poi, fra violini e fisarmoche che incrociano slide guitar ed essenza rock proletaria, ha costruito la mitologia di un suono e di un autore, ma non si cancella l'impressione chiara che Other People's Stuff sia solo un riempitivo, buono al massimo per allungare il conteggio della discografia ufficiale di John.

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