David Crosby – Here If You Listen (2018)

di Massimo Perolini

L’uomo dalle mille contraddizioni, dalle mille collaborazioni (con Stills, Nash, Young, in duo, trio e quartetto, con Pevar e Raymond, che era poi suo figlio naturale ritrovato), uno degli uomini dietro all’epopea Byrds. L’artista che nel 1971, immerso nei fumi e nei suoni lisergici, scaturiti da un’estate magnifica ma già dimenticata, ne chiamava a raccolta i protagonisti per cercare di capire come si chiamasse, torna con un lavoro ancora una volta intitolato come se fosse la parte di un discorso a tu per tu con l’ascoltatore: “Here If You Listen”, “sono qui, se mi ascolti”. Un discorso iniziato, appunto, quarantasette anni prima con “If I Could Only Remember My Name…”, recuperato a distanza di diciotto anni, dopo essersi ritrovato (“Oh Yes I Can”, 1989), ripreso dopo aver percorso mille strade (“Thousand Roads”, 1993) e recuperato in tempi recenti, dopo aver riaffermato la propria identità (“Croz”, 2014), la propria centralità nel panorama westcoastiano (“Lighthouse”, 2016) e una ritrovata serenità che gli consente di ricominciare a seguire sogni e tracce astrali (“Sky Trails”, 2017).

Con incredibile accelerazione (quattro dischi in cinque anni, quando in precedenza ne aveva pubblicati, a suo nome, solo tre in ventuno), rieccoci dunque alle prese con la voce più angelica di California e i suoi compagni di viaggio, la Lighthouse Band (nella foto sotto a sinistra insieme a Crosby), composta da Becca Stevens, Michelle Willis e Michael League, il band leader degli Snarky Puppy, combo jazz&fusion nel quale suona il basso, mentre qui si occupa di chitarre assortite, oltre che della produzione. E proprio i tre musicisti sono i responsabili dell’ispirazione che sta dietro a questo progetto, a detta di Crosby nato grazie alla coesione raggiunta dal gruppo durante le ultime tournée. Aspetto reso evidente dall’importanza riservata alle voci (spesso attrici principali in luogo del protagonista) e dal lavoro di scrittura, condotto il più delle volte coralmente e foriero di atmosfere rarefatte, molto vicine a un glorioso passato nel quale si muovevano CS&N (1967, Balanced On A Pin, Vagrants Of Venice) e Joni Mitchell: superba la rilettura della sua Woodstock, che suggella magnificamente il lavoro, ma anche I Am No Artist e Janet sono indubbiamente parti dei prolungati ascolti della cantautrice canadese.

David Crosby Lighthouse TourL’album è giocato su arpeggi di chitarre acustiche, piano, sia acustico (Your Own Ride) che elettrico, quasi totale assenza di percussioni, qualche reminiscenza degli Steely Dan (1974 che, come 1967, è la versione definitiva di un brano proveniente da lontano, più volte rielaborato e tenuto in un cassetto in forma embrionale), persino qualche riferimento a James Taylor fa capolino qua e là. Un disco che offre una piacevolezza di ascolto consueta riguardo al personaggio, ma al contempo inedita grazie alle nuove forze messe in campo. Anche i testi risultano interessanti, da riflessioni sulla mortalità (l’uomo ha pur sempre settantasette anni…) ai riferimenti, nemmeno troppo velati, a Trump e Kim Jong-un (in Other Half Rule parla di “due ciechi, con le dita ciccione sul grilletto”). La prova migliore dall’esordio del 1971, come già variamente asserito dalla stampa straniera? Riteniamo vi sia del vero, ma lasciamo che sia il tempo a sancirlo con certezza: per il momento ce lo godiamo.

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