Julia Holter – Aviary (2018)

di Alberto Campo

Riferendosi al suo disco del 1982 The Dreaming, Kate Bush diceva: «È il mio album da "quella è diventata matta"». Potremmo dire forse lo stesso di Aviary, quinto lavoro della trentatreenne statunitense Julia Holter.

A condensarne l’attitudine irragionevole basterebbe l’incipit, “Turn the Light On”, un caotico vortice sonoro d’impronta massimalista: tratto iniziale di un cammino lungo un’ora e mezza. Non proprio un facile ascolto.

Per tentare di decifrarlo, proviamo ad andare con ordine. Il titolo, anzitutto: la “voliera” cui allude deriva – spiega l’interessata – da una frase inclusa in un racconto della scrittrice di origine libanese Etel Adnan, dove quel luogo è affollato da «uccelli che gridano». Habitat hitchcockiano riferito però ai giorni nostri, poiché – afferma lei – l’intenzione è descrivere «la cacofonia della mente in un mondo che si liquefa». Non si tratta di catastrofismo, comunque: in questa nuova Babele Julia Holter cerca la bellezza. E la trova. Si dedichino cinque minuti e una manciata di secondi a “I Shall Love 2”, ammirandone i guizzi di lirismo cristallino.

Qui è citato l’Inferno di Dante: riferimento letterario fra i tanti evocati da Julia Holter, che all’esordio, nel 2011, concepì Tragedy traendo ispirazione dall’Ippolito di Euripide. In "I Would Rather See You", che sembra voglia riecheggiare la solennità gotica di Nico, affiorano versi di Saffo, mentre all’epilogo, nel sommesso madrigale "Why Sad Song", parte del testo è della poetessa buddista del Nepal Ani Chöying Drolma.

Quanto alla musica di Julia Holter, ondeggia fra contemporaneità e tradizione in maniera simile a quella di Tim Hecker, mescolando linguaggi ed epoche storiche con ingegno e disinvoltura. Non solo sul piano degli arrangiamenti, nei quali convivono il digitale delle tastiere e l’analogico di archi, fiati, contrabbasso, arpa e cornamusa (esemplare è “Colligere”, che potrebbe arrivare da chissà quale remoto passato o da un futuro imprecisato), bensì nella struttura stessa: il folk cameristico di “Chaitius” è costruito secondo i canoni del botta-e-risposta detto hoquetus (proveniente dai rituali dei Pigmei e formalizzato nell’Europa medievale) impiegando brani da un’antica canzone del trovatore occitano Bertant de Ventadonr e collocandoli in un’atmosfera da jazz libero.

Viene il mal di testa a immaginarlo? Per curarlo, ecco una ballata relativamente semplice ad alta intensità emotiva: “Words I Heard”.

Abbozzato in chiave domestica come flusso di coscienza improvvisato a base di voce e sintetizzatore, volendosi distanziare dall’ambient pop del precedente Have You in My Wilderness e «divertirsi a creare un disco audace», ed espanso poi in studio di registrazione su scala orchestrale, Aviary è di gran lunga l’opera più ambiziosa ideata finora da Julia Holter, compositrice e interprete che merita di essere confrontata con figure della statura artistica di Laurie Anderson e Björk.

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