John Hiatt – The Eclipse Sessions (2018)

di Massimo Perolini

Giunto al ventitreesimo album in studio nell’arco dei quarantacinque anni di carriera che sono intercorsi dalla pubblicazione del suo primo singolo, John Hiatt si dimostra ancora una volta capace di confezionare un disco nell’arco di pochi giorni e accompagnato da un piccolo combo, cosa che in precedenza gli era magistralmente riuscita all’altezza di “Bring The Family”. Universalmente riconosciuto come un capolavoro che giungeva a coronare uno dei percorsi più lunghi (tredici anni) mai registrati verso un successo annunciato, il lavoro del 1987 era frutto di un’ispirazione scaturita da un periodo costellato di disgrazie che oggi non sono dimenticate, ma ormai lontane. La nuova vita del cantautore di Indianapolis iniziava allora, col contributo di Ry Cooder, Jim Keltner e Nick Lowe, e oggi lo ritroviamo a ridosso di un sessantaseiesimo compleanno che lo vede finalmente rallentare (il precedente, splendido, “Terms Of My Surrender” era roba di quattro anni fa), consentendogli di guardare al passato con l’orgoglio di aver realizzato una serie di opere di alto livello, rare cadute d’ispirazione e un’attività live da grande performer.

Registrato durante una session svoltasi nell’arco di quattro giorni, nella settimana dell’eclisse solare dello scorso anno, il nuovo disco è il risultato di quello che Hiatt ha messo su nastro accompagnato dal basso di Patrick O’Hearn e dal batterista Kenneth Blevins nello studio di Kevin McKendree, che aggiunge sporadiche parti di organo e il cui figlio quindicenne (!) rivela un discreto talento, sulla scia di J.J. Cale e hiatt è funzionale all’arricchimento dei brani cui presta la sua chitarra. Ad aprire le danze, è la classica ballata alla Hiatt Cry To Me, country-soul pigro e cantato col consueto trasporto, cui fanno seguito i primi accordi di All The Way To The River (introduzione che fa pensare a All Along The Watchtower, ma sviluppo decisamente intrigante e distante dal modello che inizialmente può far pensare a una cover del brano di Dylan), primo brano nel quale l’inconfondibile voce carica di soul del vecchio John inizia a dispiegarsi in tutta la sua potenza, resa ancora più espressiva dalla maturità. Il susseguirsi di brani più legati a tematiche folk (Aces Up Your Sleeve, Nothing In My Heart, Hide Your Tears), hiattalternati a quelli più rock (Poor Imitation Of God, Over The Hill, One Stiff Breeze), permettono ad “anomalie” quali screziature soul (nella dinamica Outrunning My Soul, ma anche in Robber’s Highway, la favolosa ballata che suggella degnamente l’album) o riuscite escursioni nel country-blues (The Odds Of Loving You, splendida) di caratterizzare episodi di spessore, rendendoli funzionali a reggere l’ossatura di un disco che ci restituisce un autore eccellente, che ancora una volta riesce a coinvolgere nell’ascolto dell’ennesimo capitolo di una storia sempre uguale, ma sempre affascinante.

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