Colter Wall – Songs Of The Plains (2018)
Colter Wall fa sul serio. Dopo la rivelazione dell'omonimo album lo scorso anno, si ripresenta a stretto giro con un disco che ne ribadisce le coordinate di integrità e scarna bellezza acustica, leggermente "sporcato" da qualche ritmica più accesa e da essenziali ricami sonori. Ha soltanto ventitrè anni Colter, non finisce di stupirmi questo dato, ma la sua voce arriva da un tempo indefinito, azzarderei che si tratta di un classico, proprio per questa sua caratteristica di mostrare più esperienza e profondità di quanto possa avere visto e conosciuto un ragazzo della sua età. Songs of the Plains è concepito come un'ode appassionata alla sua terra, la grande distesa del Saskatchewan, regione del Canada poco popolata e percorsa da quella che lì chiamano wilderness. Colter d'altronde è figlio di un famoso governatore della regione ed evidentemente ha assimilato l'amore per questi luoghi, sia in senso culturale, sia in quello più strettamente politico.
Queste undici ballate, sette brani originali, due cover che pescano fra misconosciuti autori e due tradizionali cowboy songs rappresentano un'elegia, un gesto di affetto e anche una sorta di promozione, perché Colter afferma che suonando tra gli Stati Uniti e l'Europa negli ultimi due anni si è accorto di quanto poco le persone sappiano del Canada, del suo folclore western e della sua memoria. Un grande spazio vuoto, dice il nostro protagonista, dove tutto il senso di isolamento e attrazione della natura selvaggia si libra già nella prima canzone, il manifesto di Plain to See Plainsman. È una ballad percorsa dal passo del migliore country&western, che sembra sbucare dai dischi a tema di Johnny Cash dei primi Sessanta, a cui si lega indissolubilmente la stessa voce di Wall, uno scuro presagio che in queste nuove incisioni è stata persino più amplificata dal produttore Dave Cobb.
Registrato sempre presso i leggendari RCA Studios di Nashville, Songs of the Plains, come anticipato, inserisce qualche arrangiamento più vivace, ma restando bene attento a non scardinare l'impianto originale: la pedal steel di un gigante come Lloyd Green, le timide spazzolate di Chris Powell alla batteria, il basso di Jason Simpson, anche le voci dei colleghi Blake Berglund e Corb Lund, che duettano nel finale spassoso di Tying Knots in the Devil's Tail, ma più di tutti le dolci folate dell'armonica di Mickey Raphael, collaboratore storico di Willie Nelson, da cui scaturisce subito un legame speciale con dischi quali Red Headed Stranger, per una simile asciutta poesia country. Un cavaliere solitario o quasi Colter Wall, che ci offre un trittico incantevole in apertura, proseguendo il suo racconto con il picking di Saskatchewan in 1881 e il walzer di John Beyers (Camaro Song).
La prima cover, Wild Dogs, porta la firma dell'outlaw Billy Don Burns, un nome di culto del circuito alla fine degli anni Settanta: l'intepretazione da manuale di Colter e il respiro della steel, quasi un fischio in lontananza, ti incolla alla sedia. Altrettanto di può dire di Calgary Round-Up, ripescaggio di un classico del country singer canadese Wilf Carter (conosciuto anche come Montana Slim), qui sbuffante e leggiadra come un Hank Williams ritrovato fra gli archivi. Night Herding Song è solo voce e abbandono da cowboy, riuniti intorno a un bivacco nel mezzo del nulla, mentre Wild Bill Hickok si permette di entrare piedi e mani nella leggenda del West, evocando la famosa figura dello scout e pistolero ucciso a Deadwood. The Trains Are Gone potrebbe appartenere al canzoniere di Jimmie Rodgers, un retaggio giunto a noi direttamente dalla Grande Depressione, Thinkin' on a Woman è nuovamente sulle tracce di Hank e Johnny, prima che Manitoba Man faccia esplodere ancora i silenzi e gli spazi dei fraseggi di Colter alla chitarra e voce.
Pochi potrebbero reggere questa tensione senza apparire artificiosi, persino monotoni sulla distanza e fin troppo compiaciuti, ma Songs of the Plains regge per il senso di verità che trasmette.
Commenti
Posta un commento