Robin Bacior – Light It Moved Me (2018)

di Vassilios Karagiannis

Dalla spazialità del violoncello al calore domestico di una band da camera, dai tumulti acquatici del precedente lavoro all'abbagliante energia della luce. Sono elementi primigeni, ma dalla forte carica simbolica, quelli che si danno il passo nei titoli dei lavori di Robin Bacior, elementi che però contengono in tralice molta della poetica che si cela nei dischi dell'autrice, ormai ben più che una promessa. Inserendosi in una cornice apparentemente più dimessa e spartana, che esalta le piccole finezze di scrittura e amplifica la matrice jazz insita nel suo bagaglio espressivo, l'artista firma con “Light It Moved Me” un affresco di quieta ma inesorabile vitalità, una riflessione sul complesso equilibrio tra interiorità e apertura al mondo esterno, con tutta la sottile e dinamica turbolenza che ne deriva. Coloriture folk, sprazzi cameristici, ma soprattutto un'intensità melodica che sa trasparire anche senza particolare enfasi nei volumi e nei tratteggi ritmici, sono il ventaglio di spunti entro cui la songstress californiana circoscrive una rete di bozzetti personali e generali allo stesso tempo, illuminati da un chiarore deciso e avvolgente. Non poteva esserci cambiamento più adatto e lungimirante.

Con una formula sonora e un'estetica che prendono da vicino, con le opportune migliorie tecniche, il glorioso cantautorato anni 70, Bacior argina la possibile calligrafia facendo leva, banalmente, sulla propria scrittura, a tratti ancora più affinata rispetto a “Water Dreams”. Se è vero che la forza evocativa di quest'ultimo album, con le sue suggestive scenografie musicali, resta impareggiata, nondimeno l'autrice sa come far fruttare il proprio talento e concepire una densità analoga anche con un inquadramento più classico, apparentemente meno evocativo. Con un apparato strumentistico in realtà ancora più ampio rispetto al disco di tre anni fa, la cantautrice interpreta il concept luminoso dell'album imprimendo al suo cantautorato una direzione più vivace, di primo acchito quasi pacificata, a considerare brani come l'elegante marcetta pianistica “For Jim” (dalle parti della Azita più urbana). Si tratta però di un'energia, di un dinamismo melodico e di arrangiamenti che sottendono a un nervosismo in realtà piuttosto evidente, al dualismo tematico enunciato dall'artista stessa, che esplicita il concetto in più frangenti, muovendosi su diversi binari emotivi.

Intensa e rilassante, benevola e anche indecisa, Bacior legge la ricerca di questo equilibrio con grande senso del controllo, da un lato lavorando di cesello sulle proprie interpretazioni, dall'altro lasciando correre liberamente le tracce musicali, capaci anche di derive inaspettate. Un po' Nona Marie Invie, un po' Tanita Tikaram, il caldo timbro dell'autrice scava con soffusa emotività all'interno delle canzoni, ricercando un senso e una pienezza che pare sempre irraggiungibile. È così che ha sviluppato l'emblematica “Modern Confusion”, la più abile nel dipingere questa forbice con la sua euforia di trombe e gli inesorabili saliscendi strofa-ritornello, le cornici più sperimentali di “A Story In The Times”, piena di nastri in reverse e prese descrittive dal tocco post-rock, il caloroso e comunque severo andamento chamber-jazz di “Eyelids”. La songstress elabora il concept con tutta la versatilità a sua disposizione, muovendosi su crinali estremamente rischiosi con buona agilità compositiva e un ottimo senso della sfumatura. Il flusso dei brani, pur nella sua notevole brevità, non poteva svilupparsi con maggiore dinamismo e personalità.

La classe non è acqua, insomma, e “Light It Moved Me” ne è la dimostrazione lampante. Pur senza l'ausilio di un sound forte e caratterizzante, Robin Bacior dà alle stampe (per la prima volta attraverso un'etichetta) un seguito di grande pathos e sensibilità, una prova di grande maturità personale e artistica. Una luce confortante, in un mare di parole a vuoto.

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