Jack O’ The Clock – Repetitions Of The Old City Ii (2018)
E’ stata una scelta coraggiosa, quella degli americani Jack O’ The Clock, di perseverare nella completa autonomia produttiva e distributiva delle loro uscite discografiche; una scelta che ha però tenuto il loro nome fuori dai circuiti musicali che contano. “Repetitions Of The Old City II” è il sesto capitolo della loro discografia (settimo, se includiamo il mini “Outsiders Songs”): seguito di quella prima parte pubblicata nel 2016, del tutto ignorata da pubblico e critica, e relegato a cult-album da uno sparuto gruppo di fan del progressive.
Difficile a questo punto sperare che la musica di Damon Waitkus e compagni riesca a sfidare le dure regole del mercato discografico contemporaneo, il loro status di outsider, anzi, rischia di essere consolidato da quello che può, senza ombra di dubbio, essere definito l’album più arduo e impenetrabile della loro carriera. L’impostazione generale del sound è un mix di folk-rock, prog, avanguardia e musica da camera, assemblato secondo i dettami jazz-rock, con improvvisazioni calibrate e alquanto complesse e intricate. Ed è grazie a questa versatilità e alla piacevole dissonanza armonica, che “Repetitions Of The Old City II” possiede tutti i numeri per coinvolgere un pubblico alquanto eterogeneo.
Anche se i Jack O’ The Clock non amano la definizione di concept-album, dietro ogni album c’è un fulcro creativo ideologico e concettuale. L’idea di base, intorno alla quale girano le canzoni dei due volumi, è la complessità dello sviluppo intergenerazionale, nonché la difficoltà di superare i traumi adolescenziali. E’ dunque un viaggio nella psiche, quello che Damon e compagni elaborano all’interno di “Repetition Of The Old City II”, testi e musiche sono ancora più intrecciati che in passato, la perfetta simbiosi degli elementi strumentali e delle forti tematiche tonificano l’insieme, raggiungendo una prima apoteosi nei quasi quattordici minuti di “Miracle Car Wash, 1978”.
E’ in questa lunga suite che infatti viene fuori l’ingegnosa e complessa mistura di dolcezza e grinta, di luci e ombre, della band americana: insoliti accordi blues aprono l’altalena di stili e fasi strumentali del brano, tra fagotti, dulcimer, flauti, clarinetti, violini e clacson, diventando così protagonisti insieme alla più tipica strumentazione rock (chitarra, basso, batteria, tastiera) di una surreale sinfonia prog-rock.
Allo stesso modo, il malinconico chamber-folk di “I’m Afraid Of Fucking The Whole Thing Up”, i tre strumentali infarciti da flauti, violini, fagotti, clarinetti e oboe, lo straniante finale quasi teatrale alla Van Dyke Parks-meets-Xtc di “A Sick Boy”, e il tocco barocco-rinascimentale alla Jethro Tull di “Island Time” e “My Room Before Sleep” sono baciati da intelligenti costruzioni armoniche e da arrangiamenti originali e mai ruffiani.
Due dei componenti della band, il bassista Jason Hoopes e il batterista Jordan Glenn, fanno parte anche del Fred Frith Trio, ed è quindi normale che in più di un frangente ci siano espliciti richiami agli Henry Cow o al jazz-rock inglese degli anni 70 (“Into The Fireplace” ,“ INTERLUDE - Guru On The Road”), anche se le similitudini sono da ricercare anche in formazioni come Gentle Giant e Pavlov’s Dog (“Errol At Twenty-Three”).
Concepito e in parte realizzato nello stesso periodo del primo atto, “Repetition Of The Old City II” non tradisce le attese, anzi implementa il lato più oscuro della formazione americana, confermando i Jack O’ The Clock come una delle migliori band degli ultimi anni.
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