Bob Dylan - Blood on the Tracks (1975)

E' l'abbandono l'ispirazione più potente dell'arte. Vale anche per Bob Dylan visto che dopo essere diventato, più o meno intenzionalmente, il portavoce di una generazione inquieta e aver firmato l'innodia del movement, si affida ad un amore perduto (la separazione dalla prima moglie Sara) per comporre uno dei suoi capolavori indiscussi. Stavolta anzichè noi adepti, è lui stesso a sentirsi dylaniato. E' impigliato nella tristezza (Tangled Up in Blue), s'inventa la consolazione di una semplice discontinuità del destino (Simple Twist of Fate), cerca infine riparo dalla tempesta (Shelter from the Storm). Potremmo fermarci qui, ipotizzare altre chiavi di lettura ci farebbe deragliare e i binari sono già sporchi di sangue. Nulla aggiungerebbe alla grandezza di Blood on the Tracks, una testimonianza di dolore poliedricamente declinato: ora languido (If You See Her, Say Hello), ora rabbioso (Idiot Wind). Fa tenerezza questo Dylan non più ragazzo, che dismette i panni di cantore un po' saccente della protesta e rende visibile la sua vulnerabilità più intima. Nello scantinato di Montague Street la frenesia di Brooklyn gli arriva ovattata, anche se nei caffè gira molta musica e si respira "revolution in the air". I suoi amici immaginari sono Verlaine e Rimbaud, in testa ha una donna da reincontrare, prima o poi. Che sia a Tangeri, nella vecchia Honolulu o ad Ashtabula, o più semplicemente lungo qualche avenue newyorchese. Tra i cento dischi da isola deserta, a Blood on the Tracks un posto sul podio non dovrebbe essere negato.
(Donata Ricci)

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