Damien Jurado – The Horizon Just Laughed (2018)

di Stefano Capolongo

È un attitudine consolidata, quella di Damien Jurado, di mettere in musica i propri ricordi, i pensieri più articolati e i propri sogni. Dal 2012 al 2016, la trilogia di Maraqopa (Maraqopa, Brothers and sisters of the eternal son e Visions of us on the land) aveva rappresentato il punto più alto della sua fuga dal mondo, della riflessione sull’Io e dell’immersione in americanissime ambientazioni sci-fi dove perdersi in maniera più o meno risolutiva e onirica. La collaborazione con il producer Richard Swift, presente già in St. Bartlett e in tutta la trilogia, aveva arricchito questo mood escapista con soffici passaggi psych e delicati zig-zag tra immagini legate indissolubilmente al folk americano degli anni sessanta.

L’idea di un uomo nuovo in maggiore sintonia col mondo già presente in Visions of us…(«I lost my mind so i stepped out for a time / Went for a walk on a long road to unwind / I met myself there, saying, “go home”») si fa sostanza pura nel nuovo prodotto targato Jurado, The horizon just laughed. Dopo oltre vent’anni di carriera tra Sub Pop e Secretly Canadian, il Nostro opta per la prima volta per l’autoproduzione, sceglie di non affiancarsi al solito Swift e decide pure che l’album non comparirà fino a luglio sulle piattaforme di streaming. Questo gap si traduce in sound più asciutto, caldo e confortevole, adatto a introdurre una componente personale sempre più marcata e urgente frutto di una riflessione malinconica sullo scorrere del tempo. Meno orchestrale, quindi, e con una attenzione minuziosa dedicata alla giustapposizione delle parole. Non è un caso che nell’opener Allocate (una delle tracce più emozionanti in assoluto) il Nostro riservi a questo lemma uno spazio e un tempo ben preciso all’interno del testo, quasi a voler rendere quel singolo segno linguistico una piccola parabola. Un uso della parola simile, anche se apparentemente lontano, a quello del connazionale Mount Eerie (massimamente in Lou Jean). Lo stesso accade in Over rainbows and Rainier, dove il mondo sembra raccogliersi in una confessione quasi sussurrata, spezzata solo dai rumori di fondo: «I forgot I was human».

È tutto in questa scoperta il concetto che rende Jurado non più un outsider, ma una figura rinnovata che delicatamente compie e racconta il suo back from black :«Dear devil on my shoulder, I’ve got news for you». Per farlo utilizza la cosa a lui più cara, ovvero i ricordi di un’infanzia caotica fatti di continui spostamenti e di una precoce passione (nata anche per contrastare legami familiari non sempre rassicuranti) per musica e programmi TV. Dear Thomas Wolfe diventa quindi una citazione di uno show di Chevy Chase sul canale NBC, Marvin Kaplan (bossa nova deliziosa) e il blues di Florence-Jean (entrambi nello show TV Alice) si fanno portavoce di una laconica proiezione sul futuro: «One day the world will be an airport», «Dear Florence-Jean, they say we’ll never land». Damien Jurado diviene progressivamente più confidente, abbandonandosi alla realtà in un continuo e necessario, anche se spesso doloroso, ritorno alla ragione: «Don’t worry, it’s a long long way back». L’orizzonte che ride è una porta non più spettrale verso il futuro, sebbene i contorni di quest’ultimo risultino ancora ipnagogici e incerti. Da qui, la confessione più importante dell’intero album rivolta, ancora una volta, ad un personaggio del passato: «Mr. Allan Sherman, I am writing from the future, where the people never look you in the eye and there is no need to talk, and the sidewalks they walk for you. I know everything and yet no one at all».

Al primo appuntamento con l’autoproduzione, Damien Jurado si presenta con un abito semplice ma sfavillante al tempo stesso. Dopo essere andato e tornato dal proprio inferno personale, il songwriter brilla di luce propria come mai prima e tocca la vetta più alta della propria carriera.


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