Ryan Adams - Gold (2001)

Gli Allman Brothers di Ramblin' Man trasfigurati nel classic-rock irresistibile di New York, New York, Van Morrison e la Band evocati durante Answering Bell, gli Stones a rotolarsi nello sferzare hendrixiano di Tina Toledo's Street Walkin' Blues, il Neil Young fragile e sentimentale di When The Stars Go Blue e Sylvia Plath, il roots-rock per armonica di Firecracker, il banjo rurale di Sweet Black Magic, il feeling disincantato e metropolitano di The Bar Is A Beautiful Place (con gli echi springsteeniani di tromba e sax), gli up-tempos alla John Mellencamp di Rosalie Come And Go e Cannonball Days, il soul formato Tom Petty della ruggente Touch, Feel & Lose, l'hard-rock scartavetrato di Enemy Fire, la maturità folkie di Wild Flowers, l'apoteosi di assoli e schitarrate della lunga Nobody Girl, il country eccentrico di Someday, Somehow e la canzone d'autore purissima di Harder Now That It's Over, il pop rockista del primo Elton John affiorante in The Rescue Blues, gli Who avvinghiati ai riff di Gonna Make You Love Me, il pianoforte di Billy Joel nel congedo malinconico di Goodnight, Hollywood Blvd. e il country-rock accorato di La Cienega Just Smiled. Gold, secondo album solista di Ryan Adams dopo l'epopea alt.country dei Whiskeytown, non è un bignami di storia del rock (né, tantomeno, un'enciclopedia) ma uno di quei rari album dove, oltre ad accadere di tutto, ogni elemento sembra brillare di luce propria, riverberando risonanze del passato e gettando un ponte verso il futuro tramite uno stile proprietario. Un'opera toccata dalla grazia, e tanto basta.  (Mia valutazione:  Distinto)
(Gianfranco Callieri)

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