St. Vincent – Masseduction (2017)

di Vassilios Karagiannis

Nonostante l'assenza di pubblicazioni nell'ultimo triennio, è stato un periodo tutt'altro che votato al silenzio per Annie Clark: il Grammy come migliore album alternativo per il suo disco omonimo, un cortometraggio horror, il flirt da parte dei tabloid per le chiacchierate frequentazioni con Cara Delevingne e Kristen Stewart, il conseguente accesso a una platea e a potenzialità che anche solo ai tempi di "Strange Mercy" parevano totalmente fuori dalla sua portata. Alle nostre domande risponderebbe probabilmente alla maniera di uno dei tanti brevi video promozionali pubblicati nelle scorse settimane, tesi a stroncare sul nascere noiose domande poste da intervistatori poco brillanti. Eppure, verrebbe quasi da chiederglielo, se ai tempi in cui si faceva le ossa con la Polyphonic Spree, si immaginava di poter arrivare dove è ora, a essere protagonista di una delle più luminose parabole musicali degli ultimi quindici anni, a costruire un percorso tra i più peculiari e personali del pop-rock statunitense.
Forse però, più che un responso sarcastico, St. Vincent troverebbe il modo per rifuggire un confronto diretto, per rispedire la domanda indietro al mittente e porgli ulteriori interrogativi inevasi. In fondo, per una come lei adottare prospettive oblique, approcci tutt'altro che ortodossi nel raccontare e nel comporre non è mai stato un grosso problema, mai però come in "MASSEDUCTION", quinto album solista, il gioco si è fatto così sfacciato ed evidente. Saltabeccando con agilità tra assurdo e concreto (un po' come il controverso fondoschiena immortalato in copertina), tra appoggi alla realtà e immaginazione, Clark concepisce un ciclo di narrazioni in cui la componente personale, stavolta più intensa e pressante che mai (parla lei stessa di un album in prima persona), si trasfigura e si disperde in un mare di direzioni diverse (non è un caso che per la prima volta non sia il suo volto a ornare la cover dell'album), tenendo fede però all'ironia e all'estro che ne hanno sempre caratterizzato le pubblicazioni fino a questo momento. Chi si è affrettato insomma a vedere nel nuovo progetto una sorta di conversione senza resistenze ai meccanismi mainstream contemporanei dovrà ricredersi molto presto.

Va detto, però, che in effetti i tredici brani (nella realtà dodici più un breve commento atmosferico d'apertura) dell'album non tardano a manifestare il loro desiderio di suonare più potenti e vibranti che mai, di ambire a una considerazione su vasta scala. Indubbiamente lo sforzo promozionale speso per il lavoro, il reclutamento alla causa di Jack Antonoff dei Fun., tra i produttori più in vista del momento (Lorde, Taylor Swift), i video dalla cura certosina e dalla costruzione elaborata, compongono una sintomatologia di un profilo artistico che può disporre di mezzi ben più sostanziosi e quindi sfruttarne il peso per avviare una comunicazione a più ampio spettro. Eppure, non c'è segnale di compromesso, di svendita al miglior offerente: al centro del dialogo rimane sempre lei, Annie Clark, con la sua voce pronta a sommergerti in un mare di ironia, i suoi testi a cavallo tra il morboso e l'aulico, quella chitarra sgranata e rumorosa che tanto ha fatto discutere i maniaci della sei corde di mezzo mondo, le sue filastrocche dalla struttura imprendibile. A variare semmai, come al solito per l'autrice, è il vestito sonoro, il corredo di arrangiamenti attraverso cui aggiustare la traiettoria.
In tanti non saranno d'accordo, ma la scelta su cui alla fine si è ricaduti era la più logica, per non dire addirittura l'unica possibile a questo giro. Sempre più a contatto col funk, traslato però nella chiave sintetica tanto cara al Prince anni 90 (riflesse nell'estetica al neon e nelle cromie sature dell'artwork), con stoccate glam di grande classe, il nuovo album vede St. Vincent in una veste elettronica come mai prima d'adesso, aggiornando un'estetica ormai definita sotto ogni aspetto alla luce di beat pulsanti e pattern electro dei più disparati, esplicitando dinamiche dance già presenti in prove passate.

"Sugarboy", con la sua costruzione ritmica stracolma di dinamismo e quella rincorsa sintetica che tanto ricorda la Donna Summer prodotta da Moroder, si erge in questo senso al paradigma del nuovo corso di Clark. Se è vero che non mancano i momenti di maggiore distensione melodica, riflessi nelle notevoli ballate che ornano il lavoro (il melodramma di "Happy Birthday, Johnny", tra gli episodi più strazianti del suo repertorio, le improvvise variazioni di timbro che interessano "Smoking Section", sorta di dedica alle eroine al pianoforte degli anni Novanta), è a partire dalla grinta a rotta di collo di questo brano che si inquadra con lucidità tutta l'energia, la voglia di massimalismo della musicista, che non risparmia per l'occasione botta e risposta in chiave corale, un'algida sensualità interpretativa e momenti in cui plasmare la propria chitarra, a simulare quasi un'orchestra di ottoni.
Se è vero che talvolta il manto sonoro finisce col costruire i pezzi, non sempre straordinari dal punto di vista della scrittura ("Pills", in particolare, spaccato ricco di auto-sarcasmo sulla dipendenza da psicofarmaci, nonostante l'inattesa apertura sul finale e la coerente cornice electro-glam, insiste troppo su un modulo alquanto trito e infantile) nondimeno accentua la potenza dei tanti episodi degni di nota, soprattutto di quell'ambivalenza espressiva che accorpa in un eccitante unicum sensualità e distacco, dolore ed effervescenza.

I singoli di lancio non si sono insomma rivelati fuorvianti. Da una parte "Los Ageless" parla dell'alienazione e della voglia di evasione dai meccanismi fagocitanti della megalopoli attraverso un congegno compositivo curato al millesimo di secondo, in cui l'elettronica si sposa alla perfezione con le chitarre, al contempo sexy e vicine ai momenti più noise della sua carriera (il ritornello incrementale un'autentica chicca), dall'altra "New York" invece opta per un tiro decisamente più morbido, in una sorta di aggiornamento in chiave ballad dello stile favolistico degli esordi, lasciando che i contrasti si risolvano nel testo, in cui il rimpianto e l'abbandono si fanno ben presenti (possibile riferimento alla ex Delevingne?).
In questo andirivieni tra glamour e tristezza, tra sfacciataggine e voglia di eversione (la title track, per l'appunto un seducente e modernissimo saggio glam-funk, esplicita la cosa senza troppi giri di parole), St. Vincent ha insomma individuato, anche con l'aiuto delle sue vicissitudini nella vita, quale forse il nuovo corso da dare alla propria carriera e come approcciarlo al meglio sotto ogni aspetto, mantenendo intatto un baricentro artistico e uno standard qualitativo che vanta attualmente ben pochi eguali. Solo di rado raccontarsi si è rivelato così intrigante.

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