Seamus Fogarty – The Curious Hand (2017)

di Lorenzo Righetto

Non erano più di cinque anni fa, quando l'ombra di un omone irlandese si stagliava su Londra: pochi sapevano che in città c'era l'ennesimo cantautore in cerca di fortuna. Cosa poteva fare, uno che era riuscito a perdere l'autobus per Dublino e a passare quindi la notte a Carlow, la Guastalla d'Irlanda (detto con rispetto e affetto da chi è stato in entrambe), nel "tritacarne" dei musicisti?
Eppure, eccoci qua a commentare l'esordio su Domino di Seamus Fogarty, un fulmine a ciel sereno e, soprattutto, una buona notizia per chi crede nel proprio lavoro (forse bisogna ringraziare James Yorkston, se non altro per aver ispirato brani come "Van Gogh's Ear"). Sembrava che la sua fosse stata la meteora simpatica e un po' schizzata di un'Irlanda sempre meno sotto i riflettori, e invece...

"The Curious Hand" è un disco nuovo nella sua spavalderia, nella sua sicurezza, nella disinvoltura con cui veicola il suo intenso lirismo, nella potenza trasfiguratrice di anni che non devono essere stati facili, comunque, come racconta l'iniziale "Short Ballad For A Long Man":
As a young man I was never one
For sitting still at school
When I went to London town
I was paid to play the fool

Queste sono le prime parole del disco, tanto personale da diventare universale, tanto tradizionale nella sostanza da diventare contemporaneo nello stile. Con "Carlow Town", col suo banjo incalzante e il temerario arrangiamento elettro-percussivo, si apprezza tutto lo schiudimento di una personalità artistica debitrice verso i classici (qualcuno potrà prendere l'intro di "Christmas Time On Jupiter" per un brano di Roy Harper, o di John Martyn, che lo elesse a suo erede in una magica notte che Seamus vi racconterà, se sarete gentili con lui), quanto in preda a un'irrefrenabile sete espressiva, come se stessimo parlando degli Wilco di "Yankee Hotel Foxtrot", per citare un disco similmente in bilico tra rigore e follia, tra saggezza e ardore, tra lirismo e ironia.

Certo, la firma artistica di Fogarty potrà apparire smussata, a chi lo conosce per il pazzo che bestemmiava contro la montagna che gli aveva rubato una maglietta, nell'esordio "God Damn You Mountain"; ad esempio, l'abbinamento di campionamenti vocali e arrangiamenti cameristici (la title track) non è certamente avanguardistico, ma, se si parla di emozione e di narrazione in musica, non si è sentito molto di meglio in giro negli ultimi anni. In quella conversazione rubata a un vecchio irlandese, che prende la scena trasformando la musica in puro accompagnamento, in secondo piano, sembra prendere vita il ricordo, una nostalgia che diventa più forte della musica.
La solidità della visione artistica di Seamus si apprezza, poi, anche e soprattutto nel contrasto tra il carattere elementare, da cantastorie degli anni 50-primi 60, della scrittura di certi brani, che lo porta a melodie pulitissime (l'escapismo anti-capitalista di "Mexico", la Nashville-iana "Number One") e la continua ricerca sonora e cantautorale, che tenta costantemente di riplasmare, di squarciare, di rendere personale e tangibile la propria canzone come una vera esperienza. "Qualcosa" si agita sempre, nei brani di "The Curious Hand", ed è questa irrequietezza a dare vita ai brani, a esprimere la loro voglia di comunicare, di trasmettere.

Quello che rimane è un quadro intensissimo, in cui si conosce la certezza confortante della malinconia (il chamber-folk alla Lambchop di "Heels Over Head") e dello smarrimento esistenziale, espresso questo magari dal frastuono degli altri ("Tommy The Cat"), o dal silenzio meccanico degli spazi umani ("St. John's Square"), nei due brani "strumentali" del disco.
"The Curious Hand" contiene insomma tutti questi cinque anni: insuccessi, disperazione e insoddisfazione, ma soprattutto ricerca musicale, quella che fa agognare ogni singolo istante di questo album, infinita miniera di sensazioni e immagini, e nonostante tutto rende ancora insoddisfatti. Speriamo che non passino altri cinque anni.

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