The Beach Boys - Pet Sounds (1966)

L'età dell'innocenza perduta per Brian Wilson significa ingaggiare una lotta strenua con il suo genio, forgiando un disco che ancora oggi risuona ambizioso e oltre qualsiasi logica che non sia la propria insoddisfazione personale, di lì a poco deleteria per la sua stessa salute. Bilanciamento mirabile fra esigenze artistiche e perfezione melodica, Pet Sounds resta uno degli oggetti di culto della "golden age" del rock, al tempo stesso punto di rottura nella direzione dello sperimentalismo di fine sixties e annuncio di un imminente crepuscolo per la spensierata gioventù californiana. Letteramente ossessionato dalla qualità di scrittura dei Beatles, che con Rubber Soul ribalatano le certezze di una band nata sui singoli, Wilson conduce i Beach Boys fuori dal mondo ovattato della surf music e di una canzone pop ormai giunta alla sua massima espressione. L'esito è un album fagocitato da ospiti e session stratificate, dove la vocalità celestiale del gruppo resta l'unico appiglio con il passato: nel mezzo passano invece arrangiamenti, suoni, colori che schizzano in ogni direzione, aggiungendo più livelli di orchestrazioni, strumenti inusuali, giochi ritmici, frizzi e lazzi tra rumori e versi di animali. L'anima resta però appannaggio di canzoni formalmente ineccepibili nella loro grazia sospesa: difficile resistere alle tonalità sgargianti di Wouldn't It Be Nice e Sloop John B, oppure non sciogliersi di fronte alla bellezza di God Only Knows, momento di assoluta armonia. Ma sono forse i brani meno celebrati (da You Still Believe in Me a I Just Wasn't Made for These Times) a rendere Pet Sounds quel caleidoscopio di estasi pop oggi riconosciuto da tutti. (Mia valutazione:  Buono)

(Fabio Cerbone)

Commenti

  1. La recensione mi pare ben scritta anche da una persona competente, infatti mi spinge ad ascoltare l'album in questione,spero solo che la parola appannaggio scritta "a pannaggio" sia solo un refuso...

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