Ani DiFranco – Binary (2017)

di Carmine Vitale

Venti album in poco più venticinque anni di carriera la dicono lunga sul grado di prolificità raggiunto dall’eclettica artista originaria di Buffalo. Il ventesimo album si intitola (non a caso) Binary, quasi a voler ribadire l’approccio all’atto creativo divenuto ormai marchio di fabbrica: imprinting orgogliosamente DIY e una sventagliata di lucide riflessioni a mente aperta sui “mala tempora” che continuano a correre. Il “binario” è al solito la penna della DiFranco, mentre a guidarla è l’estro, una certa emotività spirituale, oltre che una buona dose d’interessanti featuring e collaborazioni che ne arricchiscono la proposta.
Cantautrice, poeta, attivista, la Nostra mostra la sua innata capacità di non subire il caos globale, ma di riuscire anzi ad addomesticarlo con una certa maestria e forse anche a esorcizzarlo. Merito di quel background socio-politico costruito a suon di bocconi di Woody Guthrie e Pete Seeger, qui declinati attraverso paradigmi che prevedono incognite guerrafondaie (vedi alla voce Trump) e che portano ad una riflessione più ampia sul concetto di pace: il soul-folk di Pacifist’s Lament sembra librarsi sulle ali di insegnamenti radicati nella filosofia di Gandhi, mentre non mancano gli sguardi chirurgici anche al proprio universo interiore (il monito in chiave funk all’autonomia delle donne di Play God).
Un concept che tutto sommato sembra in linea con quanto ascoltato (appena tre anni fa) in Allergic to Water ma vive anche di sfumature più decise, appena percettibili eppure fondamentali: mettici l’inizio di una nuova vita in quel di New Orleans o la caratura degli “ospiti” di Binary, con una spina dorsale puntellata dal bassista Todd Sickafoose, il batterista Terence Higgins, il virtuoso violista Jenny Sheinman e il mago delle tastiere Ivan Neville, a cui vanno ad aggiungersi, tra gli altri, artisti del calibro di Maceo Parker, Justin Vernon (Bon Iver) e Gail Anna Dorsey, bassista di lunga data di David Bowie. Va da sé che a trarne beneficio sono gli arrangiamenti, le traiettorie sonore messe in piedi dalla DiFranco: il folk minimale ed effettato di Zizzing (con il contributo proprio di Iver), l’incontro-scontro con certi sapori e profumi tribali (Alrighty) senza mai rinunciare ad una chiave di lettura morbida e squisitamente pop in grado a sua volta di dialogare con un’idea efficace di blues (Even More). È questo sicuramente uno dei punti focali della prova numero venti dell’artista, ovvero la capacità di vestire di un mellifluo pop l’intero album, arrivando ad ammantare anche quei suoni che lascerebbero filtrare un timido indie-rock (Spider).
Ani DiFranco neanche questa volta rinuncia a gettarsi nella mischia, disposta come sempre a sporcarsi le mani. La sua è una rivoluzione delicata dove anche la ruvidità del messaggio politico si connota di velata bellezza. Nella crudezza della sua narrazione la cantautrice americana riesce ogni volta a rinascere come una farfalla pronta a spiccare il volo per la prima volta. Ottima la produzione, per cui fondamentale si è rivelata la figura di Tchad Blake (The Black Keys, Pearl Jam), mentre il consiglio in definitiva è quello di godersi dal vivo questo Binary: il 4 luglio a Roma e il 5 a Milano. Poi non dite che non lo sapevate.

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