Alt-J – Relaxer (2017)

di Fernando Rennis

Figli dell’hipsteria e a un passo di distanza dal jetset e dai cliché del rock, gli Alt-j hanno sin da subito attirato l’attenzione della critica e degli ascoltatori indie, per una miscela esplosiva che si è risolta in un Mercury Prize in bacheca grazie a un esordio ponderato (cinque anni di lavoro) ma intoccabile come An Awesome Wave. I riconoscimenti non sono stati l’unica soddisfazione del quartetto britannico che, mentre trovava la sua migliore forma nel trio in vista del secondo album This Is All Yours, in appena due anni diventava un fenomeno mainstream infilando festival, comparsate televisive e tour mondiali, e conservando sempre quell’aria impacciata, lontana anni luce dall’appeal da maschio alpha delle rockstar.
Se il debutto degli Alt-j ci folgorò sulla via battuta già da Django Django, Wild Beasts, Everything Everything e Local Natives, This Is All Yours, eccetto una manciata di brani, sembrò un groviglio di ambizione, intellettualismo e cervellotica supponenza che metteva la libertà che si respirava dell’esordio in una camera a gas. Il tempo è servito ad assimilare in parte un album che oggi continua però a voltare le spalle a chi vi scrive, rendendo vano ogni tentativo di andarci d’accordo. Ecco perché alle prime avvisaglie di un nuovo album degli Alt-j ci siamo trovati di fronte a un bivio: ci sono o ci fanno? Che facciano album ben scritti e prodotti (e non siano così coinvolgenti nei live) lo sappiamo, ma questo Relaxer riuscirà a stampare sui volti di Joe Newman, Thom Green e Gus Unger-Hamilton (e sul nostro) un bel sorriso?
I primi frame dei clip promozionali di 3WW rimandavano ad Amnesiac, le dimenticanze dei Radiohead d’inizio millennio le abbiamo viste sbucare in quelle grafiche computerizzate animate in stile Windows 98 (infatti la copertina di Relaxer è un frame del videogioco per Playstation LSD) e, soprattutto, le abbiamo ascoltate nello scontro tra il caldo dell’analogico e dell’acustico e il freddo dell’elettronica, di ritmiche digitalizzate e asettiche. L’intro lunga un secolo fa storcere il naso e fa pensare agli Alt-j come al “secchione” di turno, e la voce salmodiante dell’inizio, in contrasto con la melodia della seconda parte della strofa, lascia un po’ indifferenti. Quando però arriva quel ritornello in pieno stile Beatles le cose cambiano, migliorano addirittura nella seconda strofa, dove la ritmica cambia di poco e le voci maschili e femminili si rincorrono all’ombra di un synthbass che ingoia tutto. Sì, ci siamo. Non è certamente una canzone che fa svoltare la giornata ma abasciator non porta pena. Nel secondo singolo gli Alt-j si sono presentati in forma smagliante: a parte un finale troppo barocco con un salto di tono che non fa che peggiorare questa sensazione, In Cold Blood ci ha convinti. Un attacco deciso è tutto quello che serve per tornare ad alcune soluzioni stilistiche che galleggiavano sulla meravigliosa onda dell’album di debutto. I fiati hip-hop e i muscoli che non si percepivano in 3WW hanno fatto il resto.
Scorrendo la tracklist di Relaxer e leggendo il titolo House Of The Rising Sun, ovviamente l’attenzione si è attaccata con gli artigli a questa terza prova del nove. Dopo i primi due singoli pubblicati nello stesso ordine dell’album, ci si imbatte in una versione della storica canzone degli Animals dimessa, rielaborata nel testo e data in pasto a un Johnny Cash meno carismatico e più oscuro. Si parlava di muscoli e di virilità prima: in questa rigenerazione che rappresenta il terzo disco degli Alt-j c’è posto anche per pose da punkettoni irriverenti a metà tra Iggy Pop e Johnny Rotten (con tanto di beep a coprire oscenità): Hit Me Like That Snare è una cavalcata psicotica, sensuale, schizofrenica che si risolve in un finale quasi grunge in cui i “Fuck You!” si sprecano. Deadcrush è meno cruda ma ugualmente affascinante, merito di una ritmica e di una linea vocale ipnotiche che hanno l’onore e l’onere di chiudere la parte più sostenuta di Relaxer. Infatti, il toccante abbraccio folktronico di Adeline e Last Year, che sembra una b-side della Polly post-Let England Shake, ci conducono dritti a Pleader, finale spiritual con orchestrazioni e linee melodiche semplici e incisive allo stesso tempo.
Relaxer conferma che oltre agli occhiali e alle camicie cool c’è di più, e testimonia la capacità che gli Alt-j hanno dimostrato sin dagli inizi: saper scrivere album da ascoltare per intero. È vero, per certi versi il loro terzo disco ricorda Amnesiac: un’atmosfera oscura si annida dietro un patto segreto tra l’acustico e l’elettronico, con incursioni in altri generi (per i Radiohead era il jazz di Mingus, per gli Alt-j si tratta di velluto rnb e hip-hop alla Jungle). Ma il parallelo con il quinto album degli oxoniensi viene spontaneo soprattutto perché ad accomunare i dischi c’è un’aria generale sommessa, claustrofobica, che non concepisce la presenza di hit in scaletta ma, piuttosto, ha bisogno di rimanere defilata per favorire un flusso continuo. Con molta probabilità An Awesome Wave non sarà mai più replicato e nemmeno superato, ma Relaxer riesce nell’intento di arginare la prolissità di This Is All Yours regalando momenti intensi, diversi ma pur sempre riconoscibili. L’album che ospita con pari dignità i fiati registrati ad Abbey Road e il suono di un Casiotone del valore di un paio di sterline, rende giustizia a una band che continua a proporre musica intrigante ed elegante.

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