Wire – Silver/Lead (2017)

di Anton Imbrogno

Quarant’anni di Wire e non sentirli. Loro, indiscussi precursori di generi e varianti sul tema interpretativo in materia ‘popular’. Riferimento imprescindibile per la New Wave britannica a cavallo fra Settanta e Ottanta. Pietra miliare assoluta per tutte le future metamorfosi Rock – Post-Punk, Synth-Wave, Avant-Pop : l’underground degli anni Ottanta che diviene alternative per i decenni successivi.

Quella dei Wire è una musica elegante ed al contempo sguaiata; leggiadra e densa, equilibrata e portatrice sana di deliri dell’anima. L’ordine ed il disordine che si fondono divenendo alchimia perfetta. Un continuo scambio di elementi tanto improbabili quanto riusciti: l’eleganza di uno smoking che nasconde la nudità di una maglietta imbrattata di sudore. In sostanza: musica muscolosa, nevrotica, nervosa, istintivamente avvitata su se stessa ma sempre in continua costante tensione col ‘mondo esterno’. Esercitando la sua destabilizzante influenza.

Dalla loro seconda ed ultima reunion (avvenuta nel 2003 con l’album Send) la band di Londra ha dimostrato (a se stessa) di non voler appartenere a nessuna scena musicale specifica, riuscendo sempre a scrivere musica di confine ed esplorare nuovi stili, generando sonorità innovative. Con il nuovo “Silver / Lead” i Wire ci stupiscono ancora una volta, ma in maniera diversa: continuando a frammentare il loro percorso musicale, incastrando oggi un album dai contenuti inaspettati e distanti rispetto alle loro recenti proposte discografiche.

Ecco dunque il nuovo album, o meglio, il nuovo album di Colin Newman, (verrebbe da dire) – dotato di un artwork in bianco e nero curato nella versione deluxe del Cd del celebre giornalista, attore e produttore Graham Duff. Più “Silver / Lead” ti consuma, più l’assurdo prende forma: il quindicesimo lavoro in studio dei Wire, sembra portare con se molti degli elementi retroattivi che hanno caratterizzato il percorso musicale da solista di Mr. Newman (voce, chitarra e synth), che di quel gruppo ne è sempre stata l’anima più elegante e squisitamente “Avant-Pop”.

Con “Silver / Lead” il gruppo lascia da parte la forza emorragica dei precedenti lavori – Change Becomes Us (2013), Wire (2015), Nocturnal Koreans (2016) –, colpendo comunque forte usando la parte più intimistica ed emozionale del proprio arsenale. Un album, questo, pregno di melodie riverberate e ripetizioni sonore che inducono quasi ad uno stato ipnotico, molto vicino a certe ambientazioni ‘Dream Pop’ che ricordano i Cocteau Twins.

Indicativo dunque il fatto che la maggior parte delle canzoni contenute in “Silver / Lead” siano state scritte da Newman. Piccole schegge sonore Pop rivestite del tipico suono Wire: così gelide, gommose e languide da farci tornare in mente il loro capolavoro di sempre “154” – il disco più importante e seminale della loro carriera, era il 1979.

Le tastiere suonate da Newman in “Playing harp for the fishes” costruiscono un immaginifico viatico verso la terra di nessuno, mentre semplici e schizzoidi detriti Rock ci destano dal sogno – il Post-Punk di “Short elevated period”. Frammenti che sanno giocare sia con la luce di un giorno non particolarmente luminoso (il gioioso fuzz di “Diamonds in cups”), che con il buio infinito della notte – la decadente “Forever & a day”. Per giungere in un gigantesco pozzo dove si fanno desiderare le canzoni più belle dell’intero album: il rassegnato spleen di chitarre acide, diluite in “Sonic lens”, la deliziosa gelatina Dark-Pop dal gusto agrodolce di “Brio”, e le acque limpide ed inquiete dal suono strisciante appartenenti alla conclusiva title-track.

“Silver / Lead” ci traghetta lontano facendoci sprofondare negli anni Ottanta, ammaliando l’ascoltatore alla maniera delle sirene incantatrici. Un suono unico ed inimitabile (ma imitato da tutti): il suono di una vita. 40 anni di Wire.

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