San Fermin – Belong (2017)

di Simone Nicastro

Siamo a tre. Consuetudine vuole che la situazione inizi a farsi seria. Tre album a partire dal 2013, praticamente uno ogni due anni. “Belong” è il nuovo lavoro in studio dei San Fermin, nome che purtroppo ancora non desta l’attenzione che invece meriterebbe. Due raccolte di inediti, una più bella dell’altra, espressioni artistiche complesse ma decisamente accessibili a chiunque del compositore americano Ellis Ludwing-Leone.
E questo terzo lavoro sposta ancor più su l’asticella rivelando nuovamente al mondo uno scrigno musicale ricco di idee, originalità, talento e varietà. Un mood complessivo fatto di incastri orchestrali su basi prettamente pop, elettroniche e no, al supporto di due splendide voci. L’indie anni zero che incontra la consapevolezza classica degli anni precedenti, le ritmiche “catchy” che si avviluppano in cori angelici e/o carnali, partiture pop/rock trasfigurate in momenti puramente sinfonici. Ogni canzone è un atto compiuto, (ri)finito in se stesso ma pronto ad congiungersi nell’orizzonte superiore del long playing.

Quello che però stupisce è ancora una volta l’assenza di remore da parte dei San Fermin: una sfrontatezza più simile all’ingenuità che all’arroganza nel voler quasi sempre spezzare durante le singole esecuzioni la comfort zone dell’ascoltatore senza tuttavia cadere nella sperimentazione narcisistica. Anzi ancor di più in questo “Belong” la capacità del sempre più numeroso gruppo di creare piccole grandi hits si è affinata chirurgicamente.
Basta ascoltare l’accoppiata “Better Company” e “No Promises”: tastiere amabilmente fluide, ritmi comodamente ballabili, chitarre leggere di sostegno e l’orchestra a primeggiare nel trasporto emozionale insieme all’orecchiabilità delle melodie vocali. Due gemme veramente brillanti.

Del resto già in apertura del lavoro le intenzioni sono ovvie: “Open” con la sua area celestiale fatta di keyboards e canto/vocalizzi femminili, quelli della cantante Charlene Kaye, impiega pochi secondi a rapirci totalmente mentre la successiva “Bride” ci invita a un matrimonio dall’esito incerto ma con colonna sonora sfavillante.
Il timbro profondo e maschile di Allen Tate invece si ritaglia la scena nella successiva pop song lisergica “Oceanica” e soprattutto nella canzone finale “Happiness Will Ruin This Place” dal sapore The National più agrodolci e intimi.
La title track “Belong” gioca sul duetto maschile/femminile aprendosi sopra una tastiera ripetitiva ma solare fino alla coda romantica di fiati e archi raffinatamente melodici: “Go on like we belong together. Two sinking bodies and their bones. There’s a little piece of me that’s always some where else but I’m right where I belong. I’m right where I belong”.
Oppure si rimane stupiti (positivamente) dal breve divertissement soul old school di “Bones” che sa evocare altri mondi senza perdere nessun elemento peculiare del sound finora ascoltato.

“Cairo” invece è un esempio lampante di cosa sono in grado di fare i San Fermin probabilmente al massimo delle loro potenzialità: evocativa e potente con le percussioni a incalzare il pianoforte mentre le voci rivaleggiano con l’arrangiamento orchestrale imprimendo al brano una sorta di rincorsa da perdere il fiato. Strepitosa come erano per alcuni i primi Arcade Fire.
C’è ovviamente spazio anche per altre perle come “August” e “Perfume”, atmosfere electro lounge rimembrando i mai dimenticati Broadcast, “Dead”, ironico momento free oriented, e la epica “Palisades/Storm”, dove il crescendo strumentale implode regalando un momento straniante e delicato.
“Belong” conferma e getta nuovamente nella mischia una band che non solo sta realizzando un percorso peculiare e avvincente ma indica un approccio differente alla scena musicale (indipendente) americana ricordandole con forza e soprattutto qualità che si può essere allo stesso tempo culturalmente alti senza perdere la valenza popular. Lunga vita di cuore ai San Fermin.

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