The Brian Jonestown Massacre – Don’t Get Lost (2017)

di Tommaso Iannini

Dopo le giravolte infinite, i concept citazionisti, le infatuazioni country e raga più o meno passeggere, questa nuova sortita dei Brian Jonestown Massacre rimane nei binari di uno psych rock variamente rimaneggiato che non sorprende particolarmente ma regge bene all’ascolto molto più di quanto non ceda, occasionalmente, a qualche manierismo di troppo. L’orizzonte gravitazionale è sempre un’idea di psichedelia che intreccia virtualmente i geni di diverse epoche storiche (dai sixties agli eighties ai Novanta del post shoegaze) in maniera fluida e sovente azzeccata. Del resto, per il buon Anton Newcombe e i suoi sodali il tempo è un nastro che gira avanti e indietro e si riavvolge continuamente. Il trance rock dell’iniziale Open Minds Now Close è molto esplicito da questo punto di vita, quasi lapalissiano, con il suo interminabile groove psychonoisemotorik – come dei Neu! reincarnati nei Loop e trasmigrati nella band californiana – che allunga i suoi tentacoli per otto minuti e non molla un attimo la presa. Ottimo inizio.
Per fortuna la psichedelia è un ombrello abbastanza capiente da contenere tante possibilità e permette di spaziare tra stili e atmosfere diverse; Newcombe questo lo sa bene. Tanto che lo psych rock di Don’t Get Lost è sempre tale ma ugualmente molto vario, anche se l’aspetto che ci piace sottolineare è quello sornione, acido, sporco, pure dark come certi giri di basso profondi (che fanno pensare, perché no, anche a fattanze in stile dub). Il trip-hop con chitarre twang di Melodys Actual Echo Chamber, la progressione non si sa se più folk o rock ma riverberata bene dalle distorsioni in sottofondo di Resist Much Obey Little, le eruzioni di rumore chitarristico in Groove Is in the Heart sono i momenti che alzano l’indice di gradimento. Seguiti nelle preferenze da una tesa e morbosissima Throbbing Gristle, in cui a Genesis P-Orridge vanno incontro dei Velvet Underground sincopati e strafatti di estasi, e poi dalle atmosfere pastorali un po’ alla Mercury Rev di Dropping Bombs on the Sun e dal jazz strambo quasi post-rock di Geldenes Herz Menz.
Di contro la catatonia di One Slow Breath, il più fiacco dei pezzi lunghi, e la house di Acid 2 Me Is No Worse Than War ci convincono decisamente meno, insieme a qualche brano più interlocutorio. Ce n’è abbastanza comunque per vedere il bicchiere mezzo pieno e anche qualcosina di più.

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